sabato 29 giugno 2024
Serve una riflessione complessa e interdisciplinare per uscire dalla narrazione che tende a far immedesimare il visitatore con la violenza. Ma così si rischiano assuefazione e voyeurismo
Se i musei della pace fanno rivivere la guerra

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La grande diffusione di musei memoriali, esplosa soprattutto dopo il 2000 anche in relazione alla tragedia delle Torri Gemelle, ha sollevato un’ampia riflessione sul nostro modo di considerare il trauma collettivo ed il processo di riconciliazione che dovrebbe aiutarci a superarlo. Da un lato, si sottolinea la necessità di “non dimenticare”; dall’altro, si insiste molto sul bisogno di elaborazione del lutto e sull’importanza di risolvere i conflitti passati per costruire un futuro migliore.Questo dibattito, per il quale è opportuno ricordare il contributo di Andreas Huyssen sulle “politiche della memoria” (Present Pasts: Urban Palimpsests and the Politics of Memory), ha incoraggiato una riflessione sulle strategie e sui dispositivi di narrazione dell’età contemporanea, riconoscendo il ruolo centrale svolto dai musei quali macchine interpretative che hanno – a differenza delle grandi elaborazioni storiografiche – la proprietà di avvalersi di modalità polisemiche, che in parte stimolano la curiosità e la risposta cognitiva del pubblico, ma che soprattutto attivano risposte emozionali che coinvolgono il senso di appartenenza, la compassione, la sfera etica e sentimentale.

La trasformazione, sempre più decisa, del museo come luogo della partecipazione e del dibattito pubblico, spazio di negoziazione delle memorie e delle identità, ha evidenziato la potenzialità degli spazi espositivi nella trasmissione di valori condivisi, incoraggiandone la capacità di alimentare la consapevolezza dei cittadini rispetto alle grandi questioni del nostro tempo: la giustizia sociale, il pluralismo, i diritti umani, la crisi climatica, la convivenza tra popoli e culture. Sul tema della pace, pure così sentito da gran parte dell’opinione pubblica, emerge una oggettiva difficoltà a restituire una rappresentazione avvincente ed efficace della condizione di sviluppo, felicità e benessere che usualmente si associano ad una società che goda non semplicemente della assenza della guerra, ma di un clima di collaborazione e di comune accordo anche al di fuori dei propri confini.

È un dato di fatto che i musei “della pace”, sono per lo più memoriali di fatti sanguinosi e di guerre catastrofiche, nei quali il fattore dominante rimane quello di una cruda rievocazione della devastazione prodotta dai conflitti: così è, per esempio, nel colossale “Mémorial de Caen/Musée de la Paix”, centro nevralgico del grande programma di musealizzazione territoriale di quella parte della Normandia che fu teatro dello sbarco alleato del 1944. Come riproposto in tutta la regione ove si snodano i “Cammini della memoria”, il museo appare in realtà come un grande – iperrealistico – diorama, dove il visitatore è invitato a vivere l’esperienza della guerra in una spettacolare rievocazione di effetto cinematografico che ha bloccato nel tempo quella fase cruciale del secondo conflitto mondiale, impedendone di fatto la rielaborazione e il superamento. I crateri delle bombe sono ancora visibili sulle spiagge di quella porzione di Francia, come le carcasse delle piattaforme di sbarco e i bunker ove si appostavano i soldati tedeschi.

Qui, come altrove in Europa e nel mondo, si ripropone la tendenza a promuovere l’idea della pace attraverso una rappresentazione fin troppo seduttiva degli scenari di guerra. Il memoriale paralizza lo scorrere del tempo e soprattutto insiste sulla celebrazione della vittoria sul nemico, in una retorica narrativa che ci invita ad indossare la divisa del combattente, provando il fragore della difesa antiaerea, il baratro del lancio tra le linee nemiche, il peso schiacciante di un fucile da combattimento. La possibilità di una deriva dei valori è evidente. Susan Sontag, in un famoso saggio del 1977 sulla fotografia, denunciava il tragico effetto della familiarità con la violenza cui ci espongono i media: “le immagini anestetizzano”, affermava. Se è vero che la fotografia di un fatto efferato rende la sua narrazione più veridica e coinvolgente, l’esposizione ripetuta alla sua rappresentazione finisce col renderci ad essa insensibili.

Il rischio di un “voyeurismo del terrore”, cioè di una esperienza di visita che indugia sulla rievocazione della guerra senza alcun potere di dissuasione, viene disinnescato in alcuni casi attraverso il ricorso a sollecitazioni allusive: oggetti simbolici, documenti, atmosfere che stimolano l’immaginazione del visitatore, facendo appello alla sua capacità di rispondere positivamente alla costruzione di senso. Così accade nella Torre dell’Olocausto del Museo di Ebraico di Liebeskind a Berlino: uno spazio buio e angosciante, attraversato da una lama di luce che penetra dalla parete metallica, dove il visitatore è lasciato solo a meditare sulla barbarie del genocidio. Si tratta di una scelta assimilabile, per potenza ed efficacia, alle soluzioni espressive di alcuni grandi artisti del secondo dopoguerra – da Burri, a Soulages a Kiefer – che denunciano l’assolutezza del male, il vuoto annichilente della guerra, senza tuttavia rappresentarlo in maniera diretta, ma mostrandone le ferite, il vuoto che esso genera e che ci avvolge.

Si vorrebbe che la pace fosse un tema ricorrente della museologia contemporanea, ma appare chiarissima la complessità della sua narrazione, di una messa in scena che sia al contempo attuale e significativa. La pace, come spesso viene sottolineato, non possiede di per sé i caratteri necessari a comporre una narrazione avvincente: essa rischia, implicitamente, di risultare banale o noiosa, priva di quel climax che risulta irrinunciabile in ogni buona composizione letteraria.

Come proporre allora una museologia della pace che risulti realmente efficace e trasmissiva nei confronti del pubblico? La strada da percorrere impone una riflessione profonda sulla complessità che la pace richiede, l’attenta lettura e la ricostruzione delle strategie con cui essa è stata mantenuta, nonostante i contrasti, gli interessi e gli errori che infinite volte hanno visto l’umanità sull’orlo del baratro. Valorizzare l’impegno dei costruttori di pace, comprenderne le manovre, ricomporre le difficoltà e le svolte che hanno permesso il superamento di tensioni gravissime, comporta un lavoro di studio e di restituzione di enorme importanza che solo un museo può realizzare, nella prospettiva feconda di coinvolgere i cittadini, di mobilitare le scuole, di aprire spazi di confronto altrimenti inimmaginabili. La Storia della Pace, nata in ambito anglosassone già negli anni ’70, rappresenta oggi un ambito di ricerca in grande sviluppo che incoraggia il dialogo interdisciplinare e la maturazione di uno sguardo competente e non ideologico sul nostro presente. Una speranza necessaria per un mondo che troppo spesso dimentica le radici autentiche delle proprie ingiustizie,

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