mercoledì 3 luglio 2024
Il vescovo Enrico Trevisi racconta come la città si è preparata alla Settimana sociale e come affronti ogni giorno i problemi legati al suo essere da sempre terra di confine
Monsignor Enrico Trevisi

Monsignor Enrico Trevisi - .

COMMENTA E CONDIVIDI

«Mi piace pensare che questa città stia vivendo un grande fermento non solo turistico, e che dopo il ‘900 oggi la frontiera sia un avamposto in Europa che unisce popoli culture». Da 15 mesi Enrico Trevisi, sessantenne lombardo di Cremona, è vescovo di Trieste, capoluogo giuliano che ospita un’edizione particolare delle Settimane sociali che si aprono oggi con il capo dello Stato e che papa Francesco chiuderà domenica. Dalla sua residenza nella centralissima via di Cavana, in mezzo agli stand delle Buone pratiche, vediamo insieme a lui che città trovano i delegati in arrivo da ogni parte d’Italia.

Ci sono tante comunità a Trieste che da secoli convivono. È un laboratorio di dialogo o è difficile praticarlo?

Guardiamo alla storia. La Chiesa cattolica è costitutivamente italiana e slovena, con tradizioni, spiritualità e confronti di diverse comunità linguistiche. Quando Trieste divenne porto franco dell’impero asburgico, attirò diversi popoli e anticipò i tempi per quanto riguarda la libertà religiosa. La comunità ebraica qui ha costruito ad esempio la seconda sinagoga più grande d’Europa come dimensioni e la comunità serbo- ortodossa e greco-ortodossa hanno i loro templi perché l’impero austro-ungarico attirò anche persone ricche garantendo loro esenzioni dalle tasse, all’incirca come i paradisi fiscali di oggi, e tolleranza. Ma l’eredità del ‘900 porta con sé le tragedie delle due guerre mondiali e di quello che ne è seguito. Qui le popolazioni si sono sovrapposte, hanno convissuto pacificamente per decenni e poi si sono fatte del male. In questa terra tutti legittimamente possono sentirsi vittime per aver subito tante violenze, ma poi il risentimento fa passare alla vendetta e a seconda di quando si comincia a guardare la storia, ci si sente vittime e ci si scopre anche complici.

E che compito ha in questo campo la Chiesa di Trieste oggi?

Ha il compito di incoraggiare una vera elaborazione storica che diventa una purificazione e una bonifica. Perché se è vero che la memoria diventa la nostra identità, se questa è inquinata da fonti avvelenate, offre frutti velenosi. Trieste è orgogliosa dei suoi tanti templi di diverse fedi, è una città laica e distaccata, ma tollerante e ha un estremo rispetto, ma deve ricostruire una memoria condivisa. Abbiamo bisogno di questa operazione e come Chiesa ci siamo inseriti da tempo in questo cammino. Ci sono esperienze positive, mentre altre vivono ancora la fatica dell’incontro e il dialogo ecumenico qui è ancora elitario. Per noi è corretto partecipare attivamente a questo processo e il tema di queste settimane sociali dedicate a partecipazione e democrazia ci offre un metodo. Allo stesso tempo noi ci mettiamo i valori per i quali ci sentiamo fratelli tutti per contribuire a realizzare una comunità e una società nella quale ci sia il rispetto del più fragile e del più vulnerabile e ci sia la salvaguardia del bene comune, della giustizia, della solidarietà e della sussidiarietà.

Trieste è tappa della rotta balcanica percorsa dai migranti. È appena stato sgomberato il vecchio Silos accanto alla stazione , dove diverse centinaia di persone vivevano da anni in condizioni indegne. A che punto siamo sulla questione?

Siamo all’inizio di un processo che va avanti con i trasferimenti e che dobbiamo affinare e migliorare con le istituzioni e la società civile. Penso che tutti auspicavamo la chiusura di quella che era una vera e propria favela urbana. Abbiamo visto sui volti dei giovani trasferiti in altre regioni e in altre comunità la gioia per aver cessato l’incubo di vivere in mezzo ai topi senza acqua corrente né servizi igienici, come in una fogna. Ora con le autorità, con la Caritas diocesana e le tante organizzazioni della società civile continuiamo a collaborare e a prestare attenzione ai più fragili e a coloro che continuano ad arrivare quotidianamente. Come diocesi abbiamo aperto una piccola struttura per i transitanti nella sala parrocchiale più vicina alla stazione a nostre spese per accogliere una notte chi tenta di ripartire. La città non è il terminale della rotta, ma per chi sceglie di restare con le istituzioni occorre cercare il modo di accogliere nel modo più degno in strutture adeguate. La polarizzazione, gli scontri e i veti incrociati non facilitano il processo. Lo stile della nostra presenza nella nostra identità di Chiesa è collaborare con tutti nel rispetto di tutti e ci piacerebbe non venire etichettati e strumentalizzati. Ci muove il riconoscere nell’altro le sembianze di Cristo sofferente e la volontà dii testimoniare i valori evangelici.

Trieste ha una contraddizione anagrafica, è la città più vecchia d’Italia e ha una università che attira molti giovani. Come convivono questi due poli?

Contraddizioni e contrapposizioni fanno parte della storia triestina. È città italianissima ed è anche la più mitteleuropea, è una piccola città eppure multiculturale, ha una grande università che compie quest’anno un secolo e il tasso di anzianità in città e in Regione è notevole. Nelle tavole rotonde e nelle piazze che verranno proposte in questa settimana sociale si affronterà il tema dell’inverno demografico. Dobbiamo cercare di inventare nuove forme di sostegno alla cultura della famiglia, non è soltanto attraverso gli incentivi economici che si aiuta la natalità. Trieste attira ad esempio molti ricercatori - siamo la città italiana con il tasso più alto -, però questi sono sradicati e non hanno nessun parente e se si sposano, al massimo mettono al mondo un figlio perché mancano i servizi. A partire da Trieste, in tutta Italia servono politiche familiari adeguate. È anche un tema culturale perché oggi la vita spesa nel dono di sé per prendersi cura di qualcuno sembra essere stata messa da parte, siamo nella cultura dei “centri benessere”, della ricerca del benessere individuale che sta dilaniando le coppie. L’individualismo è il virus che porta all’inverno demografico.

A parte i migranti chi sono i poveri?

Gli anziani, ad esempio. Incontro spesso persone che vivono ai piani alti senza ascensore e raramente possono uscire. In questa città dove il monte è attaccato al mare ci sono salite ripidissime e barriere architettoniche che bloccano i disabili. E poi non dimentichiamo la vulnerabilità e la fragilità dei più giovani. Va benissimo il bonus psicologo, però non dovremmo provocare una fragilità così forte ad esempio con lo sfruttamento lavorativo, dobbiamo farcene carico stando accanto e incoraggiando.

Come ha partecipato la città all’organizzazione della Settimana sociale?

Mi hanno colpito tante piccole cose, dalle lettere degli anziani delle case di riposo al Papa scritte spontaneamente a quelle dei bambini. Alcune scuole hanno assemblato una tovaglia grandissima con tanti tessuti diversi, legando storie. Anche i detenuti hanno collaborato a realizzare le pissidi per la celebrazione di domenica col Papa. Le persone più piccole e più fragili hanno colto prima di tutti gli altri che stava accadendo qualcosa di grande a Trieste.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI