Tentò Victor Hugo a risollevare l’animo dell’amico Hector, all’indomani dello storico tonfo del
Benvenuto Cellini: «Cantate, voi che siete stato fatto per cantare, e lasciate urlare coloro che sono stati fatti per urlare». Non furono solo urla, però, quelle che investirono Berlioz la sera del 10 settembre 1838 all’Opéra, dominata da Meyerbeer. Lo ricorda lui stesso, con una buona dose di autoironia: «Si tributò all’ouverture un successo esagerato e si fischiò tutto il resto con un accordo e un’energia ammirevoli». Il cammino si prospettava arduo, come era stata la composizione di quella singolare
opéra-comique che offre ancora oggi infinite sorprese, sperimentale per la sua epoca, bizzarra, discontinua, consapevolmente frenetica, come lo è il suo protagonista, lo scultore e orafo fiorentino, in lotta con il mondo e in questo somigliando molto a Berlioz. Eppure proprio queste caratteristiche – che sono un anticipo di modernità – hanno attirato l’attenzione di Terry Gilliam, trovandovi un terreno fertile ove forgiare personaggi bizzarri e visioni oniriche. Perché c’è da aspettarsi ogni meraviglia da un regista che ha fatto parte dei Monty Python e al cinema si è tuffato nella creazione di mondi fantasmagorici con
Brazil, Le avventure del barone di Münchausen, La leggenda del re pescatore, Parnassus e l’ultimo,
The Zero Theorem. Nulla è scontato nei film di Gilliam e nemmeno lo è nel
Benvenuto Cellini che arriva al Teatro dell’Opera di Roma il 22 marzo per sei recite (l’ultima volta, venti anni fa, la regia era stata affidata al 'romano' Gigi Proietti). Roberto Abbado sarà sul podio, al tenore americano John Osborn è affidato il ruolo del protagonista.
Gilliam, il libretto di deWailly e Barbier è ambientato nella Roma rinascimentale del 1530: la città dei Papi e degli artisti, dei cardinali mecenati e dei soldati prezzolati, delle chiese e delle taverne... «Non è che mi sia venuta subito in mente quella Roma – confessa il regista intercalando spesso la sua inconfondibile risata,
nda – , ma all’inizio ho pensato anche a un paese del nord dell’Inghilterra, un’area molto conservatrice, e naturalmente a Venezia, che con il suo carnevale è la città perfetta. La mia ispirazione, anche come scenografo, sono state alla fine le
Carceri di Piranesi, un luogo dove tutto è ben ordinato, ma che può rovesciarsi da un momento all’altro».
Come accade quando, all’apice del martedì grasso, in Piazza Colonna scoppia il famoso carnevale, scena in cui lei si è certamente sentito a suo agio. «La mia idea era quella di fare del carnevale, un tempo in cui tutto si capovolge e la realtà non è più ciò che sembra, il fulcro e la tonalità di tutta l’opera. Per questo ho deciso di occupare il palcoscenico fin dall’inizio, durante l’ouverture. Per me quella sinfonia di undici minuti era troppo lunga, noiosa, bisognava animarla, coinvolgendo subito il pubblico nelle visioni di Cellini, che prendono forma con la statua del Perseo, il suo vero incubo. È la sfida della sua vita, per questo ho voluto che la statua fosse enorme, irreale e irrealizzabile ».
Genio e sregolatezza contraddistinguono la vita di Cellini. Chi è per lei questo personaggio? «Lui è in realtà molte cose insieme. È un mascalzone, un bugiardo, un imbroglione, un donnaiolo, è infedele, avido ed egoista. Non è di sicuro un bravo ragazzo. Ma è un grandissimo artista. Autentico, diretto. Il suo enorme talento lo riscatta. È pure un seduttore, non credo che sia capace di amare veramente nessuno, nemmeno Teresa. Infatti, all’inizio la vuole soltanto sedurre, prendendosi gioco di lei, in un primo atto che è tutto un po’ assurdo. Poi però s’innamora sul serio, la prima volta forse nella sua vita, ed è quello il momento in cui diventa vulnerabile. Adoro quest’opera perché nulla è troppo ovvio. Come nel mio cinema, non mi piaccio le cose e le storie ovvie, ma quelle che inaspettatamente si capovolgono e vanno alla rovescia».
Girare film aiuta o rende una regia lirica una sfida troppo rischiosa? «Non saprei, perché ho fatto la regia soltanto di due opere nella mia vita, questa e
La dannazione di Faust, pure di Berlioz, un compositore visionario che sento molto vicino. Devo dire che è stata importante la presenza, nella produzione del Cellini, di Leah Hausman, co-regista, che è riuscita a tradurre, senza mai ostacolare, tutta la mia vena
naïve ».
Quando si è avvicinato al mondo dell’opera? «La prima opera che ho visto nella mia vita è stata un
Wozzeck di Berg a Parigi. E l’ho odiata. Non mi piaceva l’allestimento e ho subito abbandonato l’idea di una regia. Mi è sempre piaciuto ascoltare un’opera, più che vederla. Trovarmi davanti una Giulietta che invece di essere una teenager è un donnone di 55 anni che pesa quasi cento chili, per me è francamente insopportabile. Non riesco a sospendere il mio dubbio e a crederci».
Ma le piacerebbe, crederci? «Eccome. Per me l’opera assomiglia un poco al mondo dei cartoni animati, anche se rimane uno spettacolo per le élite, i giovani non possono permettersela. I personaggi sono caricature, rimandano a degli archetipi. Ma devo anche essere libero, trasformare la storia come mi piace. So però che così mi troverei a combattere tutto il tempo con il compositore».
Pur combattendo, dirigerebbe altri titoli in futuro? «Mi piacerebbe mettere in scena una versione condensata del
Ring concentrandomi sui personaggi e lasciandomi prendere soltanto dalla musica di Wagner. Qualche anno fa mi avevano proposto
Pagliacci all’Arena di Verona: ma no, quello è uno spazio troppo grande, va bene per Zeffirelli, non per me. C’è stata poi Parigi che ha tentato di convincermi per un
Andrea Chénier: mi piaceva la figura di questo poeta rivoluzionario, mi era abbastanza vicina. Ma avevo bisogno di un tenore giovane e bello e non c’era. Ora devo prima di tutto cercare di girare il mio film su
Don Chisciotte, è in cantiere dal 2000, faccio due passi avanti e tre indietro. Non ci sono mai i soldi. E poi in un film io ho il controllo totale di quello che accade, nell’opera no, perché prima viene il direttore, poi i cantanti, e alla fine il regista. E questo mi affatica, è frustrante».