domenica 16 settembre 2012
«Le droghe? Ci sono artisti che ci cadono per fragilità. Ma io ho sempre preferito lo sport. Si deve suonare per le emozioni del pubblico, non per sfoggiar bravura»
Il pianista Renato Sellani, il decano del jazz italiano

Il pianista Renato Sellani, il decano del jazz italiano

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«Un pianoforte? Mai posseduto. Una volta ne comprai uno ma dovetti venderlo subito, avevo bisogno di soldi… E pochi anni fa un amico me ne ha lasciato un altro in eredità: beh, l’ho donato a un circolo». A parlare è Renato Sellani, anni 86, professione... pianista. E non uno qualunque: anche se si definisce «discreto dilettante». Perché Sellani è stato il primo vero pianista jazz italiano (debuttò nel ’58, “scoperto” in rivista da Franco Cerri), ha inciso 150 album (avete letto bene), fu il primo pianista di Chet Baker, e se volete fare un viaggio nella storia della musica vi basterà parlare con lui. Lui che «Duke Ellington mi venne ad abbracciare per come suonavo»; lui che «Ella Fitzgerald mi chiese di trascriverle la partitura di Volare»; lui che «Quando presentai Umbria Jazz Miles Davis disse “Finalmente uno di noi”!». Lui, Renato Sellani, che a 86 anni incide ancora: un cd di piano solo elegante, delizioso, intitolato Quando m’innamoro… e dedicato alle composizioni di Roberto Livraghi, fin dal brano del titolo lanciato a Sanremo ’68 da Anna Identici. E se pensate che tale titolo sia più adatto al cd di un ragazzetto da talent, che non all’inedito di uno che ha accompagnato Billie Holliday e Sarah Vaughan o conversato con Stravinskij e Bernstein, vi basti il senso del suonare ancora per il Sellani del 2012: «Mah, io sono contento del mio romanticismo. La musica senza emozioni non ha nessun futuro».

Maestro, perché sente ancora l’esigenza di incidere?

«Suonare è un piacere. Anche se non dà molto da mangiare, il jazz. Per me conta l’emozione: l’artista si esprime, il pubblico lo accoglie. Ed esprimersi significa guardare a ieri, non dimenticando chi il jazz l’ha creato. Oggi confrontarmi con i brani di Livraghiè un cercare di tramutare belle melodie pop in nuovi classici, osando variazioni sul tema».

Resiste pubblico per una musica più “colta” del pop?

«Non ci sono sponsor, semmai. Il pubblico? Conta saperlo capire. Perché come mi disse Bernstein, se in platea c’è gente che vuol solo far vedere i gioielli, suoneremo male. I miei ultimi cd hanno avuto successo pure in Giappone, anche se la scomparsa di Gianni Basso ha impedito il tour che volevano: perché io il pubblico ho imparato a capirlo facendo teatro».

Con il grande Tino Buazzelli, giusto?

«Sì, l’unico che sapeva fare tutto, dal vecchio al bimbo… Devo a lui il primo stipendio, quarantenne, in un Brecht dove mi volle pianista-attore sul palco».

E dopo nemmeno Mina si esibiva mai senza di lei…

«Mah, erano altri tempi, altri artisti. Una sera un temporale tolse la corrente alla band, Mina mi chiamò al piano e volle un pezzo di cartone: col quale si fece un megafono. Suonammo due ore piano e voce».

Perché geni come Miles, Chet, la Holliday, cadevano nei tranelli della dipendenza da droghe ed alcol?

«Billie la sfiorai solo, povera, non aveva più voce. Ma è fragilità, sa? Aggravata dal fatto che certe persone sono facili da condizionare. La droga poi è tremenda, porta a dilapidare tutti i guadagni. Per Chet fu la fine. Ma suonava meglio, senza droga».

Lei non ha mai rischiato di cadere in quei tranelli?

«Se le sto parlando oggi che ho 86 anni è perché non ho mai bevuto liquori, nessuno stravizio, mai ceduto a certe tentazioni. Semmai, ho fatto molto sport».

Ha conosciuto artisti che ritiene sottovalutati?

«Senz’altro Bruno Martino. E Bindi, lo emarginarono».

Il “suono” di Sellani come si può definire?

«Basta ascoltarmi. “Suono come sono”, citando un lp. Cerco di non annoiare, do spazio più alle emozioni che ai virtuosismi. Come in questo cd dove c’è una Ave Maria, laica, dedicata a un emblema della bontà in un mondo che vedo sempre più rumoroso e crudo».

Lei oltre al jazz ha inciso Endrigo e Paoli, Chopin e Puccini, il Brasile e Napoli… Che cosa le manca?

«Mi manca non aver studiato musica classica. Non la fama, non l’ho mai cercata. Anzi, a proposito: non mi chiami Maestro, basta il nome. La lezione più grande che posso dare è quella che mi diede Dizzy Gillespie, un biglietto con scritto Remember,ricorda. Voleva ricordassi sempre di suonare per chi ascolta, non per me stesso. Oggi in troppi vogliono far capire che sono bravi, ma noi dobbiamo tutto al pubblico».

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