Immagini ottenute da Olivier Simon con una MRI a 3 tesla - da Stanislas Dehaene, “Vedere la mente. il cervello in 100 immagini”, Raffaello Cortina
Mettete in una busta la descrizione di un delitto e il profilo psicologico del presunto autore, speditene copie a un certo numero di giudici chiedendo loro quale pena avrebbero inflitto al colpevole sulla base delle perizie a disposizione. Metà dei referti sono accompagnati da alcune immagini del cervello a sostegno della diagnosi di di-sturbo mentale, che nel testo è uguale per tutti. Il risultato dell’esperimento condotto negli Stati Uniti è stato abbastanza netto: “vedere” i disturbi ha prodotto sentenze molto più miti (ovvero, ha reso più credibili le valutazioni cliniche alla loro base). Le neuroscienze hanno dovuto fare i conti negli ultimi trent’anni con una benedizione che è diventata anche un grande problema. La possibilità di osservare in vivo il funzionamento del cervello, oltre a costituire una delle più grandi rivoluzioni della ricerca, ci ha anche messo, come dice il titolo originale di un meraviglioso libro di Stanislas Dehaene, “faccia a faccia con il nostro cervello”. In italiano è diventato Vedere la mente. Il cervello in 100 immagini (Raffaello Cortina, pagine 222, euro 26,00), che non tradisce lo spirito di una introduzione accessibile e godibile, ma condotta al massimo livello di rigore e di aggiornamento. È stato affermato che le immagini del cervello sono le icone scientifiche della nostra epoca, capaci di scalzare il modello atomico planetario e la doppia elica del Dna come emblemi dei progressi conoscitivi recenti. Si tratta in effetti – più della struttura della materia e forse persino più della comprensione del funzionamento dei nostri geni – di una scoperta che ci porta a scrutare la nostra interiorità. Come scrive l’autore, in quel chilo e mezzo di materia molle sono racchiusi «la mia mente, la mia persona, i miei ricordi, la mia volontà». Dehaene, docente di Psicologia cognitiva sperimentale al Collège de France e protagonista dell’epopea raccontata, sarebbe il primo a spiegare a quei giudici americani che non devono cadere nel tranello di considerare le neuroimmagini fotografie a colori del nostro sistema nervoso, il quale resta di uno scialbo grigio benché il volume sprizzi tinte forti e accattivanti a ogni pagina. Anzi, la lettura del libro (di formato allungato come un album e costituito da un centinaio di brevissimi capitoli corredati da spettacolari figure tratte dagli esperimenti più rilevanti) favorisce una comprensione unica dei meccanismi che ci consentono di vedere, parlare, leggere e fare di conto, imparare e prevedere, muoverci e avere una coscienza… Anche la malattia mentale comincia a diventare comprensibile e abbiamo ora l’opportunità di intervenire con nuovi, sofisticati strumenti per contrastarla. Resta da combattere la tentazione di prendere quelle macchie rosse, blu e gialle nei nostri emisferi in formato digitale come il segno diretto che individua una corrispondenza perfetta tra alcuni circuiti e una funzione cognitiva o un comportamento. Ci ha provato alcuni anni fa un gruppo di studiosi che presentò presunte corrispondenze tra specifiche attivazioni neuronali e giudizi politici, pubblicando i loro risultati sul “New York Times” e dando un colpo alla credibilità della nascente neuropolitica. Nei tribunali le neuroimmagini rischiano di intimorire e confondere gli operatori della giustizia che le temono o vi si attaccano per scagionare i propri clienti. In ambito medico possono spingere a decisioni che debbono invece basarsi anche su altri fonti di evidenza. Nelle applicazioni commerciali del neuromarketing sono in grado di innescare una deriva di sfruttamento dei nostri meccanismi inconsci e automatici per orientare le scelte di acquisto al di là del nostro controllo consapevole. Per tutto questo le tecniche che hanno reso “trasparente” la scatola cranica sono tutt’altro che di interesse specialistico per pochi addetti ai lavori. La guida offerta da Vedere la mente risulta quindi tanto affascinante quanto preziosa.
Indagando i misteri del cervello fra nuove scoperte e tante perplessità
Sono molti i libri dedicati agli studi recenti su quella che si definiva materia grigia Tutti testimoniano complessità in cui ci si muove a tentoni
«Siccome tutte le facoltà dell’anima dipendono dall’organizzazione particolare del cervello e da quella di tutto quanto il corpo a tal punto da non essere chiaramente altro che questa organizzazione: eccovi una macchina », scriveva nel 1747 Julien Offray de La Mettrie. Il medico e filosofo francese (1709 -1751) per queste ipotesi scientifiche, ritenute false ed eretiche, dovette lasciare il proprio Paese, criticato persino dai colleghi illuministi. Trasferitosi nella più tollerante Olanda, vide bruciato in piazza a Leida il suo libro L’uomo macchina. Finì quindi per riparare alla corte di Federico il Grande a Berlino, il sovrano più laico e culturalmente aperto del tempo. Se una prospettiva materialista sulla mente costrinse all’esilio perpetuo il suo proponente, 150 anni dopo, un acclamato premio Nobel poteva ripetere le stesse affermazioni senza suscitare troppo scandalo nell’era delle neuroscienze: «Le tue gioie, i tuoi dolori, i tuoi ricordi e le tue ambizioni, il tuo senso di identità personale e di libero arbitrio in effetti non sono niente più che il comportamento di un’organizzazione di cellule nervose e delle molecole a esse associate». Era l’“ipotesi sorprendente” del libro pubblicato nel 1994 (in italiano, La scienza e l’anima. Un’ipotesi sulla coscienza) da Francis Crick, lo scopritore della doppia elica del Dna, poi dedicatosi allo studio dei misteri del sistema nervoso umano. D’altra parte, l’idea del cervello come una macchina è una metafora di lunga durata che ha segnato i tentativi di comprendere sempre meglio il nostro organo più importante. Racconta la storia “filosofica e scientifica”, ma anche culturale, di questa impresa lo zoologo dell’Università di Manchester Matthew Cobb, in Mente e cervello (Einaudi, pp. 454, euro 32), un avvincente e rigoroso affresco di come dall’antichità a oggi si sia provato a studiare l’oggetto forse più complesso dell’universo. Una storia che si può narrare sia con le categorie e i paradigmi che ne hanno segnato le varie tappe sia con i personaggi che sono stati sul fronte più avanzato della ricerca. Per esempio, Pierre-Paul Broca (1824-1880), medico chirurgo, docente all’Università di Parigi, che contribuì a consolidare le teorie localizzazioniste (per cui le singole funzioni cognitive hanno sede in aree specifiche del cervello), con la scoperta della lateralizzazione del linguaggio. Egli si interessò a un paziente detto “Tan”, perché quella era l’unica sillaba che riusciva a pronunciare, mentre peraltro riusciva a comprendere ciò che dicevano gli altri. Alla sua morte, l’autopsia rivelò una lesione circoscritta in una piccola zona dell’emisfero sinistro, successivamente denominata area di Broca, che presiede alla capacità di parlare e la cui disfunzione provoca afasia. Broca si interessava anche di antropologia, gettando un ponte tra nascente neurologia moderna e interpretazioni culturali e sociali di più vasta portata. È quello che accadde con le scoperte di Benjamin Libet (19162007), neurofisiologo e psicologo alla University of California, San Francisco, che ha il merito di avere introdotto l’indagine empirica sul libero arbitrio, concetto fino al 1983 di esclusiva pertinenza di filosofi e teologici. Gli esiti degli esperimenti di Libet sono orientati alla negazione della libertà umana, poiché sembra che le nostre decisioni siano avviate a livello cerebrale prima che ne siamo consapevoli, come se vi fossero automatismi che sono al di fuori del nostro controllo cosciente e ci privano di autonomia e autocontrollo che pensavamo di possedere. Sembra un paradosso nell’epoca dell’Uomo neuronale, come intitolava una sua opera Jean-Pierre Changeux, altro eminente neuroscienziato umanista, ma del cervello sappiamo ancora pochissimo argomenta Cobb, secondo il quale oggi disponiamo di una mole enorme di dati che non siamo in grado di connettere in una teoria comprensiva. Per questo abbiamo bisogno di nuovi modelli interpretativi. Quelli che ci hanno portato fin qui, compresa l’analogia con il computer, vanno esaurendo la loro capacità euristica. Qualcosa però, viene da dire, l’abbiamo compresa. E il libro è qui a dimostrarcelo. E a ribadire un elemento troppo spesso dimenticato: «L’interazione tra la scienza del cervello e la tecnologia evidenzia il fatto che la scienza è immersa nella cultura ». E che la cultura è a sua volta influenzata dalla scienza. Lo indica un altro protagonista della ricerca (non citato da Cobb) come Joshua Greene, psicologo, neuroscienziato e filosofo, di Harvard, i cui studi hanno avuto un fortissimo impatto sullo studio della cognizione morale e sul cosiddetto neurodiritto. Quando guardiamo come si attivano i cervelli delle persone di fronte a certi dilemmi, dobbiamo concludere, sostiene Greene, che i kantiani sono degli impulsivi morali i quali ricorrono a un giudizio non ponderato, a differenza degli utilitaristi più inclini a una razionalità riflessiva. L’opposto di quanto si ritiene comunemente. E se il nostro cervello funziona come una macchina deterministica, pur sofisticata, allora non ha senso punire i colpevoli di reati, perché non potevano fare altrimenti. Ancora una volta sono metafore e paradigmi, tra scienza e cultura, a guidare la ricerca e la sua interpretazione. E, date le conseguenze straordinariamente rilevanti che ne derivano, tutto ciò merita massima attenzione.