Possiamo ridire con il santo Curato d’Ars: «Il sacerdote è l’amore del cuore di Gesù». Perché? Perché la sua vocazione è “servire” l’amore del cuore di Gesù. Ascoltiamo ciò che dice il
Catechismo della Chiesa cattolica: «Affinché questo appello risuonasse per tutta la terra, Cristo ha inviato gli Apostoli che aveva scelto, dando loro il mandato di annunziare il Vangelo: “Andate e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,19-20). Forti di questa missione, gli Apostoli “partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano” (Mc 16,20)».«Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21): questa missione ricevuta dal Signore risorto, la sera di Pasqua, è il fondamento permanente della missione della Chiesa e, in essa, del ministero apostolico, del ministero ordinato. Ma c’è immediatamente un’obiezione: il “mandato di annunciare il Vangelo” è riservato ai soli ministri ordinati, secondo la successione degli Apostoli? Evidentemente no! È la vocazione di ogni cristiano, di ogni battezzato.
Il Catechismo della Chiesa cattolica lo dice chiaramente: «Coloro che, con l’aiuto di Dio, hanno accolto l’invito di Cristo e vi hanno liberamente risposto, a loro volta sono stati spinti dall’amore di Cristo ad annunziare ovunque nel mondo la Buona Novella. Questo tesoro ricevuto dagli Apostoli e stato fedelmente custodito dai loro successori. Tutti i credenti in Cristo sono chiamati a trasmetterlo di generazione in generazione, annunziando la fede, vivendola nell’unione fraterna e celebrandola nella Liturgia e nella preghiera (cfr. At 2,42)». “Tutti i credenti” sono dunque chiamati ad annunciare la fede con la vita e la parola, con la liturgia e la preghiera. Ma allora, se le cose stanno così, a che pro il ministero specifico del sacerdote, del vescovo? È una domanda che ha sconvolto in modo drammatico il dopo-Concilio. I più anziani tra noi lo ricordano. Per alcuni è stata un rimessa in discussione radicale del ministero specifico dei presbiteri. Si contestava tutto: «Gesù non ha voluto il sacerdozio!». «Nel Nuovo Testamento non ci sono presbiteri per la Nuova Alleanza!». L’interpretazione “sacerdotale” del presbitero era rimessa in discussione. Si diceva che non ha fondamento nel Nuovo Testamento: la “sacerdotalizzazione” dei presbiteri era ritenuta l’effetto di un’“ellenizzazione” del cristianesimo o di una “ricaduta” nelle concezioni sacerdotali dell’Antica Alleanza. Era molto diffusa una concezione puramente funzionale del presbitero, come “anziano” della comunità, da essa delegato a guidarla. Si parlava, dunque, di “presbiteri a tempo parziale”. E, inevitabilmente, tutto questo dibattito era “condito” dalla rimessa in discussione del celibato dei preti. Solo più tardi si è aggiunta anche la discussione sull’ordinazione delle donne. I miei primi anni di sacerdozio (sono stato ordinato nel 1970) sono stati fortemente segnati da questo dibattito sul senso e la specificità del ministero sacerdotale. E ci tengo qui a rendere brevemente omaggio al mio confratello domenicano e relatore di tesi, padre Marie-Joseph Le Guillou, teologo del Concilio. Egli si è speso anima e corpo per la difesa dell’inalienabile specificità del ministero sacerdotale, prima, durante e dopo il Sinodo dei Vescovi del 1971, pagando questo impegno con la propria salute. Oggi, questi dibattiti sembrano lontani. A parte qualche residuo tra alcuni “ex combattenti” del 1968, le discussioni dell’epoca sembrano superate. Il ministero del presbitero è molto meno contestato. La sua specificità è riconosciuta. Ma intravedo un altro pericolo di cui non esiterò a parlare durante questo ritiro: si tratta del riaffiorare di un certo “clericalismo” che mi rattrista e nei confronti del quale vi voglio mettere in guardia, con semplicità fraterna. Su questo punto, l’equilibrio dottrinale è di grande importanza e vi invito a riprendere con me l’insegnamento del Vaticano II, che è di un’estrema precisione. Il Santo Padre Benedetto XVI ha più volte ricordato che bisogna fare tutto il possibile per promuovere la conoscenza dell’insegnamento del Concilio. Ci ha detto testualmente: «C’è bisogno di una nuova iniziativa per il Vaticano II».Esaminiamo insieme il testo-chiave che riguarda il nostro argomento:
Lumen gentium. Quante discussioni su questo testo nei primi anni del dopo Concilio! In effetti, per caratterizzare il sacerdozio ministeriale o gerarchico, il Concilio parla di una differenza
essentia et non gradu tantum, di una differenza dunque «di essenza e non solo di grado», Ricordo certe ironie, tra clero e laici, su questa “differenza essenziale” come se, con questa espressione, il Concilio avesse fatto dei sacerdoti degli esseri di un’altra natura, essenzialmente diversi dai “semplici mortali”. E c’era poi anche tutto il dibattito sul carattere sacramentale conferito dal sacramento dell’Ordine, considerato dalla tradizione come un segno essenziale, che tocca veramente l’essere della persona ordinata. Il sacerdote, un essere a parte, essenzialmente diverso dal laico, un essere superiore, elevato al di sopra dei comuni mortali: era questa la visione del sacerdote proposta dal Concilio? Per dirla in modo sintetico: il sarcerdozio comune dei fedeli è dell’ordine della finalità, mentre il sacerdozio ministeriale è dell’ordine delle
ea quae sunt ad finem, come dice san Tommaso d’Aquino, «è dell’ordine dei mezzi». I mezzi non sono il fine, servono il fine. Il fine delle opere di Dio è la nostra felicità eterna, la nostra beatitudine. Tutto ciò che dispiega le virtualità della grazia battesimale, tutto ciò che realizza la nostra unione con Cristo, ci avvicina a questo fine beato costituito dalla nostra piena partecipazione alla vita divina. Il sacerdozio ministeriale è uno dei mezzi per realizzare il fine per il quale Dio ci ha creati e per il quale Cristo ci ha riscattati.