giovedì 17 marzo 2016
Musica e liturgia, il tempo della RINASCITA
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Pur tra le difficoltà che le comunità ecclesiali italiane stanno attraversando, un punto sembra in qualche modo restare forte: la presenza di un coro. In ogni sua forma, composizione o “stile”. I motivi possono essere molti, a iniziare dalle esperienze che offre il cantare assieme, ma il fatto è forse anche indizio di quanto la musica sia vissuta come mezzo privilegiato di partecipazione alla liturgia. «Non dobbiamo mai dimenticare che il coro liturgico è un ministero», commenta padre Jordi- Agustí Piqué i Collado, compositore, teologo e liturgista, nonché preside del Pontificio istituto liturgico Sant’Anselmo, a Roma. «La musica non è un’ancella della liturgia, ma una sua parte essenziale. Un coro che non si intenda come ministro non ha ragion d’essere. Il suo compito è preservare la dignità e far partecipare tutti alla liturgia con il canto e con l’ascolto, per la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli».  Attorno alla musica nella liturgia si accendono, cicliche, le polemiche (altro sintomo, però, di come il tema stia a cuore di tanti), dovute spesso a malintesi di molti tipi o a un senso di smarrimento. Eppure, secondo secondo Piqué i Collado, questo è un tempo ricco di potenzialità: «Sono stati e sono anni di cambiamenti molto veloci, anche confusi, in cui c’è stato un capovolgimento di un concetto di tradizione. È come entrare in mare e trovarsi senza punti fermi. Questo però ha aperto immensi campi di lavoro: a livello liturgico, di musica, di creazione di nuovi repertori, di dialogo con nuovi compositori. Come sempre è accaduto, ci sono cose buone e cose da buttare. Il tempo ci dirà cosa è destinato a rimanere. Cinquant’anni, da questo punto di vista, sono pochissimi». Allargando lo sguardo, quella che a noi è sembrata crisi, altrove è stato risveglio: «In altre culture, dall’Asia alle Americhe all’Africa, questo momento ha portato a un grado di inculturazione e creatività molto forte. Le lingue vive hanno portato a una grande creatività e a una scoperta della propria identità nella liturgia, anche a livello musicale. Se noi abbiamo l’obbligo di conservare la tradizione, altre culture cominciano a creare la loro. La “scoperta” della lingua obbliga tutti a cercare il suono della liturgia. Tutta questa ricchezza nasce con il Concilio, che costituisce l’elemento unitario attorno a cui ruota ogni esperienza».  Che tra liturgia e cultura ci sia una forte prossimità lo conferma monsignor Vincenzo De Gregorio, organista e dal settembre 2012 preside del Pontificio istituto di musica sacra, il “conservatorio” della Santa Sede: «Alcuni dei fenomeni italiani degli ultimi decenni non hanno riscontro in altri Paesi, dove la formazione musicale generale è diversa. Basti pensare che in Italia i libretti del canto liturgico riportano solo il testo, altrove c’è anche il pentagramma. Il problema a monte, dunque, resta soprattutto la formazione musicale». Di laici e sacerdoti: «Data la scarsa preparazione, molti parroci hanno dato spazio a chi si diletta di musica – persone alle quali, sia chiaro, va un grande rispetto per l’impegno. Questo però ha incoraggiato il dilettantismo e l’individualismo nelle scelte e nella creazione di nuove musiche». La responsabilità, secondo De Gregorio, è però anche di chi non ha affrontato per tempo il problema. «Eppure i testi ufficiali erano chiari: i canti nelle lingue volgari devono essere approvati dall’ordinario. Questa indicazione è stata elusa due volte: in primis dallo stesso ordinario che non si è applicato all’esame e alla scelta delle musiche. E quindi da laici e dai religiosi, che si sono inventati cantautori. La lacuna è stata in parte sanata recentemente con la pubblicazione del repertorio nazionale della Cei nel 2009. Ma la raccolta è stata effettuata nel 1999: a oggi mancano quindi già quindici anni di musica. Se poi contiamo che ogni movimento ha il suo repertorio... Non sono per un dirigismo stretto, ma non posso nemmeno pensare che tutto possa passare senza un vaglio minimo». Forse l’urgenza più che sulle melodie è sui testi: «Il canto liturgico è profondamente legato alla parola. Una cosa è cantare un canto che abbia un buon testo, altro delle banalità. Quando scrivo per l’assemblea devo stare ben attento, perché metto in bocca parole alla gente». La soluzione è lavorare per la qualità: «Nel nostro istituto abbiamo studenti da 32 nazioni. Dall’anno scorso i professori di composizione sono stati invitati a insegnare a scrivere non solo su testi latini, visto che gli idiomi largamente praticati sono altri. E così ora facciamo prove di esame anche su testi in lingua corrente ». Così come molti sono gli equivoci sugli stili o gli strumenti: «È un falso problema. I linguaggi artistici della Chiesa cattolica sono sempre stati mobili e rinnovati, in rapporto con l’arte dell’umanità. Fino al Seicento, ad esempio, i salmi venivano accompagnati con il liuto, perché non dovremmo volere delle chitarre in chiesa? Semmai il problema è come la chitarra viene suonata. Anche su questo serve formazione». Ma anche su questi aspetti la situazione sembra cambiata: «In questi ultimi anni si sta facendo molto a livello di corsi per direttori di coro, musicisti, autori. E vi partecipa tutta la Chiesa italiana, da Nord a Sud. C’è fermento. Certo le parrocchie sono tante, oltre a santuari, conventi, case religiose... Ma a fronte del nulla degli anni precedenti, ora c’è un impegno, ed è importante». E un nuova attenzione la nota anche monsignor Marco Frisina, compositore tra i più noti ed eseguiti di musica per la liturgia e direttore del Coro della Diocesi di Roma. «Vedo molti segnali positivi. C’è una bella rinascita dei cori, che vuol dire polifonia e cura del canto nella liturgia. E sta aumentando la produzione e la richiesta di musica di qualità scritta nell’alveo del Concilio». Un fatto fino a pochi anni fa non scontato: «È vero, i dilettanti hanno fatto il lavoro che avrebbero dovuto fare i professionisti. Quando ho iniziato il mio servizio erano pochi, ma per fortuna eccellenti, gli esempi a cui poter fare riferimento. Il problema è che molti compositori hanno interpretato scrivere per l’assemblea come sminuente. E sono andati avanti a scrivere come se non fosse cambiato nulla… Perdendo così un’occasione. Ma scrivere per l’assemblea è difficile, perché serve il cuore mentre per un mottetto a volte basta la tecnica. Occorre uno sforzo per portare la grande tradizione nell’oggi, nell’esperienza del popolo. Con tutta l’attenzione necessaria, per non abbandonarla alle mode o ai dilettanti. Cercando di fare cose semplici ma alte». La strada, secondo Frisina, la indica il gregoriano: «Non tanto per imitarlo ma per studiarne le modalità. Il canto gregoriano è normativo perché ci dice come dovrebbe essere la musica nella liturgia: la qualità del testo; la ricchezza delle forme tra antifone, inni, responsori e così via; la bellezza di una melodia che resta all’interno di un’ottava o poco più, perché possa essere cantata da voci naturali. E, soprattutto, la preghiera come scopo. Queste caratteristiche possono essere applicate da tutti i linguaggi musicali. Non è il fatto di recuperare il gregoriano come se fosse un amuleto, ma nella sostanza. In questo modo si potrà scrivere anche nel 3000, con un linguaggio del 3000. Certo, non posso fare Sanremo durante la messa, come non posso portare “la Messa” a Sanremo. Allo stesso modo non farò un concerto durante la liturgia, che ha i suoi tempi. Non userò il ritmo da ballo ma potrò trasformarlo, rileggerlo per farne preghiera di letizia. Prendiamo le liturgie africane, dove regnano le percussioni regnano. Ma lì ad esempio non vengono usati gli stessi ritmi dei contesti profani. La radice culturale viene trasformata, non confusa. È lo sforzo che tocca anche a noi».
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