La chiesa di Alvar Aalto a Riola (progetto del 1966)
Tra le priorità di una chiesa vi sono armonia, senso, unità. Tutto il percorso liturgico dovrebbe essere la scaturigine della chiesa stessa perché ne identifica il senso, in una unità e dinamicità formale che tutto lega nella diversità. Ogni simbolo risponde a un significato generale, ma, per la ricchezza delle forme con cui il mistero si incarna in tutte le identità esistenti, si può esprimere nei modi e nelle peculiarità delle comunità e dei luoghi in cui viene concepito. Il tema fondamentale è quello della metodologia, se ve ne è una, che permette di trasformare in forma questa idea di unità e armonia delle diversità. Vi sono esperienze in cui si tenta la strada del significato comune e della coerenza formale. Molte volte però queste si realizzano in modo superficiale. Unità non significa un motivo grafico o un modulo da replicare ovunque e così definire questa coerenza, magari pure liturgica. Non vuol dire che se ho i cubi nel presbiterio allora devo giocare a una specie di tetris tridimensionale per ricavare le forme. Questa è una traduzione impropria, didascalica e statica del concetto di armonia e unità. Deve essere ricercato quello sbilanciamento dinamico che è il processo, il motore della architettura formale. Se la chiesa non è processo vivo, non ha senso di esistere. E la forma trasmette per osmosi proprio ciò che è il suo intendimento, eludendo ogni possibile stratagemma e dissimulazione. Un tempo la questione della simmetria era fondamentale, perché l’idea stessa di perfezione dell’universo e del sapere era una solidità senza sorprese. Una costruzione mentale solidamente ortogonale. La storia della scienza ci ha mostrato invece come spazio e geometrie intime della materia esistano in uno spazio variabile pur nell’ambito di un insieme definito. In definitiva ogni entità spaziale, geometrica, matematica e a maggior ragione biologica, non presenta confini rigidi e definiti. Esiste nell’ampiezza di una vibrazione, costantemente mutante. Sbilanciamento, spostamento perenne. Il luogo definito in senso rigido non esiste. In sé è processo. In sé, traducendo in termini antropologici, è cammino. L’asimmetria rappresenta perfettamente la condizione che si è rivelata proprietà di ogni singola entità esistente.
L’architetto tedesco Gottfried Böhm, premio Pritzker nel 1986, sfugge a classificazioni stilistiche rigide, considerandosi egli stesso architetto che crea ponti linguistici tra esperienze differenti. Ed è uno di coloro che sul processo ha impostato una parte del suo lavoro. Nel santuario di Maria, Königin des Friedens (Maria, Regina della Pace), una moderna chiesa di pellegrinaggio a Neviges in Germania, costruita tra il 1963 e il 1968, Gottfried Böhm ha dato vita a un esempio mirabile di come la costruzione completamente asimmetrica può identificare un luogo sacro potentissimo, che non perde centralità e riunisce l’antico con il contemporaneo in una formula spaziale senza tempo che parla direttamente allo spirito. A un primo sguardo si potrebbe pensare che l’architettura in questione è modulare. Non è cosi. Se fosse modulare non trasmetterebbe la sensazione di movimento, di fermento che quella fioritura di volumi scomposti e rigorosi riesce a dare. È una architettura di processo. Per tradurre il processo in soluzioni formali, non servono approccio accademico, impegno di volontà, preparazione di studio. Queste possono essere utili ma solo in un secondo tempo. Serve invece immersione totale, capacità di mettersi in gioco nella vita come nelle strutture formali. Serve una perfetta identificazione. Il luogo sacro è antiaccademico per antonomasia, perché non può accogliere la cristallizzazione, dovendo suggerire un cammino. Armonia e unità della struttura non sono esercizio formale da compiere con puntuale meticolosità, con dei rimandi qua e là contornati da didascalie. Sono incarnazione, da parte di chi pensa le forme, dello stesso fluire della vita che è fatta anche di discontinuità coerenti. Per fare un paragone, la continuità che c’è tra un albero e le sue foglie è evidente. Eppure, se si dovesse ragionare per similitudine, tra la trama di una foglia e la texture di una corteccia si vedono ben poche affinità. Ma la linfa attraversa e nutre entrambe, ed entrambe sono la medesima struttura ed entrambe lavorano in una direzione unica con peculiarità differenti. È lo stesso processo vitale che genera come frutti i risultati simbolici di una potente architettura sacra. Alla chiesa di Gottfried Böhm aggiungo un altro esempio di come sia possibile interpretare una chiesa come organismo vivente attraverso il dinamismo delle tensioni architettoniche. La chiesa di Alvar Aalto a Riola, negli Appennini bolognesi, frutto dell’intuito di un grande committente come il cardinale Lercaro, incarna un’idea del processo sicuramente diversa da Böhm, ma altrettanto decisa, in cui lo sviluppo razionalista e funzionalista va inteso in senso esteso e organico. Mi riferisco in particolare alla intelaiatura dei sei archi di differenti dimensioni, ad andamento asimmetrico con uno sbilanciamento modulato dalle travature longitudinali che ne interrompono la continuità solo in parte, dando così vita a una interazione formale che pur nella essenzialità, dà contezza delle complesse relazioni processuali di un organismo dinamico. È tutt’altro che una architettura tipicamente “organica”, eppure trasmette vitalità. La concezione del presbiterio e l’idea dell’aula modulabile integrano molto bene il senso della dinamicità, ma la sostanza è nell’impianto formale della intelaiatura che ha la stessa funzione del segno all’interno del linguaggio pittorico. L’architettura del sacro non è di per sé necessaria alla sopravvivenza. Accontentarsi di uno sviluppo estetico modulare – per sottrazione, aggiunta, moltiplicazione, frattale e così via – non soddisfa in nessun modo l’idea di unità estetica e di armonia di un luogo sacro. Deve invece essere individuato il congegno vitale della forma, molto più intimo dell’esplicitarsi della forma stessa. Il processo, ancora il processo. Non i moduli. Non le cifre stilistiche. Tutto questo è particolarmente necessario nei casi che prevedono un adeguamento liturgico, operazione che viene spesso compiuta anche nei progetti nuovi, dove il più delle volte è necessario pensare i poli liturgici – che dovrebbero essere la fonte prima del progetto – a involucro compiuto. L’attenzione ai simboli è incredibilmente scarsa nonostante sia incontrovertibile che i luoghi liturgici siano la parte essenziale di una chiesa. Ci si trova ad avere architetture, più o meno stimolanti, con dei presbiteri la cui presenza è risibile. Qui serve intercettare l’accordatura della intelaiatura architettonica, per far sì che i luoghi liturgici, giocoforza pensati a posteriori, si rivelino come il motivo essenziale, il motore, intorno a cui l’architettura è stata pensata. In questo è necessaria una componente di servizio. Nell’autonomia e nella libertà di creazione dell’artista (autonomia e libertà che hanno come correlato la responsabilità) deve essere chiaro che una chiesa non si presta alla estemporaneità fine a se stessa.