martedì 31 luglio 2018
Oggi spesso in secondo piano nei progetti, pareti e pavimento sono la veste del corpo dell’edificio sacro. Materiali e geometrie hanno un potenziale espressivo, simbolico e liturgico da riscoprire
L'intervento di Dan Flavin a Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa a Milano, progetto sostenuto da Fondazione Prada

L'intervento di Dan Flavin a Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa a Milano, progetto sostenuto da Fondazione Prada - PAOLO TERZI Fotografo, Modena

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Ci sono elementi che da tempo sono pressoché ignorati nella architettura delle chiese. Il colore interno dell’edificio, appiattito verso il bianco minimal o il grigio cemento che se un tempo erano novità oggi appaiono spesso di maniera. O ancora il pavimento, così importante in tanti mirabili esempi storici, dai mosaici bizantini alle geometrie cosmatesche, dal commesso del duomo di Siena ai tappeti marmorei barocchi.

Parlando di corporeità – la grande assente prima che dall’architettura, dalla fede moderna – colore, luce, materiali sono elementi essenziali nel comunicarla o negarla. Fin dal mio primo progetto artistico in una chiesa ho pensato ai colori come una veste che ricopre e testimonia il corpo, abbraccio potentissimo nel sollecitare la percezione. L’amore per la veste testimonia l’amore per il corpo.

Complemento tracciabile della veste è la geometria del pavimento: il progetto del cammino, la visione statica del percorso dinamico. Invito a seguire un percorso, non come istruzione ma come seduzione. La geometria del pavimento completa l’avvolgimento del corpo unico e complesso che è la chiesa, ne è sistema circolatorio e linfa che scorre attraverso i suoi organi vitali. Meravigliosa qualità della scrittura che è motore attraverso i segni.

La cattedrale di Reims, realizzata a cavallo tra il XIII e XIV secolo, è un grande esempio di unità stilistica, audacia costruttiva e vertigine gotica. Con una componente che riesce a far vibrare tutti i suoi materiali, già di per sé tutt’altro che inerti: la commistione tra colore e luce, attraverso le meravigliose complesse vetrate che ne costellano la superficie. Vetrate antiche e moderne, quelle forse più famose eseguite per una chiesa dal grande Marc Chagall. In questo caso il manto, la veste, è veste luminosa.

Oggi sappiamo che la luce è materia, è corpo, ma allora lo si poteva solo intuire. Eppure la presenza dei vetri colorati e la luce che ne viene filtrata e addensa volumetricamente lo spazio, riescono a sfiorare la pelle come una carezza presente e vibrante.

Se vi è un esempio nella modernità che fonde colore, luce e geometrie, materiali urbani e complessità delle relazioni spaziali e formali, è il convento domenicano di La Tourette, capolavoro di Le Corbusier. In una maniera totalmente originale colori, geometrie e luce lavorano alternandosi, sommandosi e sottraendosi in uno spartito unico come se non fossero categorie eterogenee. Il percorso che ne viene delineato è chiaro pur mantenendo le caratteristiche della permutabilità. Uno spazio solido, ma non fisso. Estremamente dinamico e vitale.

Non è un caso che tra coloro con cui Le Corbusier ha collaborato a La Tourette ci fosse Iannis Xenakis, compositore/ architetto proiettato verso una dinamicità che riunisse, anche nei suoni e nel modo di trattare gli strumenti più classici, le frequenze eterogenerate in un complesso sistema sinfonico unitario. Chi ha familiarità con la musica di Xenakis ne riconoscerà nei pattern e nei processi di La Tourette la rappresentazione visiva e visionaria. Da un punto di vista linguistico, l’attraversamento dei codici in La Tourette assume in maniera intelligente una delle più controverse caratteristiche del procedere compositivo di Xenakis, ossia la disinvoltura nel rendere “complanari” e dialoganti il telaio sintattico su cui la scrittura si muove e la scrittura stessa, operazione affascinante e rischiosa.

Le Corbusier mostra perfettamente come la veste non debba essere necessariamente una superficie senza soluzione di continuità. Può essere invece un gioco di contrappunti compiuti e al tempo stesso vibranti di un rimando continuo, come a costruire una rete mobile di percezione che si compone una volta per tutte solo nell’apparato sensoriale del visitatore.

Su questo tema è impossibile non citare l’esperienza di Dan Flavin nella “Chiesa Rossa” a Milano. Credo che chiunque altro sarebbe stato incapace di sottrarsi alla freddezza concettuale e a-corporea del neon per ammantare di luce e colore le superfici. Invece la sottile trama di diffusione e la scelta cromatica hanno permesso a Dan Flavin di comunicare presenza e corporeità in un modo forse impensabile prima. Meno complesso di La Tourette dal punto di vista della articolazione eterodossa di forme e materiali, ma altrettanto raffinato. Il tema del colore è unito a quello dei materiali.

C’è una prassi dei materiali che ne dimentica la potenza simbolica ed espressiva. Non è un fatto solo recente. Pensiamo ad esempio al gruppo delle cosiddette “chiese leonine” dell’Umbria, dovute alla campagna di riqualificazione architettonica o costruzione ex novo voluta tra il 1846 e il 1878 dall’allora vescovo di Perugia Vincenzo Gioacchino Pecci, poi papa Leone XIII (da cui il nome). In queste chiese la costante ricorrenza di laterizio e pietra serena si ascrive più alla riconoscibilità di una comunanza di stile che alla forza espressiva autonoma del singolo materiale.

Se ci pensiamo bene una delle caratteristiche fondanti del nostro essere corpo è la materia di cui è costituito. Ossa, muscoli, articolazioni, pelle, sangue... Nel simbolo tutto questo è incarnato dai materiali. La forma è il pensiero che organizza ma la materia è la sostanza presente, quella che comunica senza intermediari. Ogni singola scelta di materiale parlerà per sé dentro la forma che lo contiene.

Questo apre a una infinita possibilità di scelte, che può trovare risposta coerente solo se alla base c’è una ispirazione forte. Si è abdicato invece in favore di descrizioni e didascalie per mancanza di energia ispiratrice e di effettiva convinzione. Si riempiono presbiteri e pilastri di striscioni e slogan per l’incapacità di confidare sulla potenza della materia e della forma artistica; e peggio ancora sulla forza icastica della liturgia. Quando si cede alla spiegazione significa che non si sa quale altra strada scegliere. È come se per un incontro scegliessimo di inoltrare un bugiardino descrittivo al posto del contatto diretto.

Materiale, colore, geometrie: su tutti questi tre elementi si possono prendere due strade, quella decorativa e quella di significato. Non sempre è facile individuare il confine. Ma ci sono esempi magistrali, come le geometrie del pavimento del Duomo di Firenze, dove la potenza espressiva, il totale superamento delle questioni funzionali, la complessità e la mirabile capacità tecnica rendono inscindibile il significato dall’ispirazione e dall’abilità artigianale.

Generalmente impeto decorativo e urgenza di significato portano a risultati differenti, persino opposti. La via della decorazione sceglie sulla base del gusto e non del significato. Il compiacimento estetico fine a se stesso, le opere citazioniste, la coazione a ripetere di un artigianato stucchevole e oleografico – ma anche quello che scimmiotta il contemporaneo –, l’oggettistica da chiesa prodotta in modo seriale, non creano spostamento alcuno, alcuno invito al cammino. D’altro canto il significato in sé non basta a giustificare l’opera. Essere credenti ispirati non serve a nulla per realizzare opere potenti, anche nel sacro. La bellezza non nasce dalla fede. Sono la capacità della forma e il talento le componenti essenziali che poi, se incontrano l’ispirazione, possono raggiungere risultati eccelsi.

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