Il compositore Nicola Piovani - WikiCommons - CCby2.0
Nicola Piovani ha scritto la voce “Silenzio” per il nuovo volume dell’Enciclopedia Italiana delle Scienze, Lettere e Arti edita da Treccani. Da tempo il compositore, premio Oscar per la colonna sonora di La vita è bella, si batte contro il consumo passivo della musica, che definisce così: «Nella nostra civiltà, il vero nemico del prezioso silenzio è proprio la musica: la musica passiva, che viene soffusa negli ambienti pubblici e che un cittadino è indotto ad ascoltare mentre fa la spesa al supermercato, quando entra in qualsiasi negozio, mentre prende un caffè al bar, mentre è messo in attesa in una telefonata a un ufficio». Tra ottobre e novembre, per cinque settimane, Piovani è stato ricoverato in isolamento al Policlinico di Tor Vergata, a Roma, la sua città, perché positivo al Covid-19.
Dopo questa esperienza di dolore e solitudine, definisce ancora “prezioso” il silenzio?
«Prezioso è il silenzio da cui nascono idee, quello in cui si sentono meglio i propri sentimenti, quello in cui vivono la lettura e la riflessione, e che nella nostra moderna comunità consumistica diventa sempre più una rarità».
Un silenzio di riflessione accompagnerà questo Natale?
«Mi piacerebbe che le prossime feste fossero accompagnate da un po’ di silenzio, ma non ci conto. Siamo sommersi dal chiacchiericcio, dalle polemiche istantanee, dai sottofondi del bla bla bla, da una folla di epidemiologi da bar sport».
Nel suo contributo al volume Treccani, lei scrive: «Personalmente credo che il pensiero musicale che arriva nella mente di chi scrive musica si presenti più a nudo, più distinguibile se nasce da silenzio riflessivo, dall’assenza di altri suoni o rumori». Che cosa distingue questo silenzio dal silenzio che invece esprime il vuoto, l’angoscia?
«Il vuoto e l’angoscia possono tingere di color funesto sia il silenzio, sia la musica a tutto volume, sia il chiasso. Il silenzio riflessivo è altra cosa, è una pausa del pensiero, è una salutare scansione della verbalizzazione compulsiva».
Nel suo scrivere musica, quando ricorre al silenzio e perché se ne serve?
«Rubando dai trucchi dei grandi del passato, quando voglio dare più peso a ciò che sta per risuonare. Il silenzio-pausa a volte fa da rincorsa per il suono; senza le sacrosante pause una musica può diventare flusso ordinario. Al grande attore comico napoletano Beniamino Maggio, ormai in tarda età, fu chiesto: “Maestro, ma voi ce la fate ancora a recitare?”. E lui rispose: “Ma io mica recito. I’ facci’ ‘e ppause!”. Celebri erano le pause teatrali di Eduardo De Filippo: durante quelle pause l’intero teatro era attraversato da silenzi espressivi più di qualunque suono, voce, parola».
A proposito di teatro: lavori nuovi in vista?
«Diversi, soprattutto di cinema. Ma attendo con ansia che i teatri riaprano a pieno regime, con le platee affollate, con i cori che cantano fianco a fianco. Vorrei tornare presto a fare musica dal vivo, l’unica che resiste agli attacchi della nostra civiltà pubblicitaria, un antidoto a una fruizione che tende a destrutturare le opere, parcellizzarle in schegge, in formelle sonore che si susseguono senza soluzione di continuità: la logica dello “spot” e “superspot”».
Nel Testamento di Heiligenstadt, quando scopre che dal- la sordità non guarirà e va in depressione, Beethoven scrive: “L’arte, soltanto lei mi ha trattenuto”. Non può andarsene da questo mondo prima di aver donato agli altri uomini quanto sente di poter dare loro. Gli artisti hanno questa “responsabilità” del dare?
«Ho passato la mia adolescenza a misurarmi con quel Testamento: la mia ordinaria presunzione ginnasiale mi portava a cimentarmi con quel “dovere etico” della composizione, come dono dato agli uomini: in una parola, il mio Narciso si voleva paragonare a Beethoven. Crescendo ho felicemente abbassato il tiro: si può scrivere musica anche senza misurarsi con l’eterno, misurandosi col quotidiano. Quando suono a teatro, mi accontento se riesco a condividere le mie emozioni musicali con le centinaia di persone che – quella sera e in quel luogo – hanno scelto di riempire la platea. Da ragazzo sognavo di comporre per i posteri, di entrare nelle enciclopedie dei classici, fra Petrassi e Pizzetti. Oggi i posteri sono una categoria per me opaca. Diceva Giorgio Caproni: “lascio quest’antologia ai posteri, se posteri ci saranno”. Profetico».
In La voce della luna, il film di Fellini al quale lei ha collaborato, ascoltiamo Roberto Benigni dire: “Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire”. Sono passati 30 anni. Una frase che sta diventando una profezia?
«Era già una profezia, un’intuizione del genio di Fellini. Oggi siamo immersi nel chiasso mediatico, sommersi da inaffidabili titoli di giornali strillati ogni giorno, dibattiti–battibecchi maleducati e stonati, polemiche accanite fra orecchianti. Il silenzio è d’oro sempre di più».
Dice una poesia di Vincenzo Cerami, autore a lei molto caro: “Il silenzio che venne dopo / è quello degli eterni cieli / notturni e in moto perpetuo. / Un cielo dentro l’altro / contro l’altro, / con due stelle che lassù / – forse col rumore di un soffio – / si scontrano e si spengono / l’una contro l’altra / una dentro l’altra”. Un silenzio siderale. Lo vorrebbe ‘sentire’ in questi giorni?
«Verrà un tempo per sentire quel silenzio, ma presentemente mi interessa godermi scampoli di silenzio nel mio ordinario quotidiano. L’altra mattina, all’alba, guardavo dal mio balcone il sole che sorgeva da dietro i Castelli romani, e il silenzio veniva ogni tanto interrotto solo dalle rade voci degli uccelli. Guardavo la città che di lì a poco avrebbe acceso le migliaia di macchine che riproducono tappeti musicali, fra le isterie dei clacson. Era un momento magico e me lo godevo».