Un inno alla pietà verso i peccatori, una richiesta di autentica redenzione, un pianto sull’uomo che in carcere ha dimenticato Dio.
La ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde è uno spettacolo che Umberto Orsini, il regista Elio De Capitani e la musicista Giovanna Marini concepirono nel 2005 e che ora, dopo un po’ di anni, hanno ritenuto necessario riportare in scena al Tetro dell’Elfo di Milano. Perché quando in tv si ascoltano i raccapriccianti dettagli delle ultime iniezioni letali 'malriuscite' nelle carceri degli Uniti, quando più di 200 ragazze nigeriane restano ostaggio di crudeli aguzzini e quando dalle nostre carceri sovraffollate arrivano ogni giorno grida inascoltate, beh, allora è giunto il momento di rispolverare le parole asciutte e sincere del poemetto magnificamente cesellato da Oscar Wilde nel 1898 dopo la devastante esperienza del carcere. Ed è quello che ha voluto fare la Compagnia Umberto Orsini che produce lo spettacolo. Nel 1895 Oscar Wilde, in seguito a una causa per diffamazione da lui intentata al Duca di Queesberry, fu a sua volta accusato di comportamento contrario alla morale pubblica e condannato a due anni da scontare nella prigione di Reading. Quello che vide e che visse, nelle terribili prigioni di età vittoriana, si tradusse in quest’opera che prende spunto dalla condanna all’impiccagione, circa un secolo prima, di un giovane ufficiale reo di avere ucciso la propria amata. La prima a entrare su una scena scarna e buia, dove campeggiano solo alcune sedie e due tavoli di legno, è Giovanna Marini, etnologa e musicista, che tiene una piccola lezione: a lei il compito di tradurre in musica la poesia di Wilde, cantando il testo originale in inglese, alternato in un elegante gioco teatrale con la lettura in italiano di Orsini (che con De Capitani firma adattamento e traduzione). E il magnifico attore 80enne ci conduce con naturalezza per mano, con una voce che parla dritto al cuore, attraverso i tre passaggi fondamentali dell’opera. Il primo è l’orrore per la pena di morte, per l’uomo che uccide un altro uomo, anche se assassino. La descrizione dettagliata delle ultime ore del condannato, l’algido rituale della sua uccisione, si riflette nell’attesa spasmodica e sbigottita dei suoi compagni, «barche che si incrociano nella tempesta ». Ed ecco il secondo punto, la solitudine e la disperazione degli uomini chiusi in carcere, privati della loro dignità di uomini e della luce non solo del sole, ma anche di Dio. Un Dio che irrompe fisicamente in scena. Nel momento dell’impiccagione del condannato, a prendere il suo posto è un crocifisso del ’700, mentre la Marini intona uno straziante
De profundis della tradizione regionale italiana. Ma non c’è tempo per la pietà, il canto viene spezzato dal cinismo e dall’indifferenza di chi 'sta fuori'. Ed è allora, nel terzo movimento della ballata, che le parole volano più alte, alla ricerca aperta del supporto di nostro Signore, della sua redenzione, di «quella Croce dono che Cristo ci ha lasciato» dice Wilde accusando le rigidità della giustizia umana. Un dilemma, certo, quello tra giusta pena e perdono. Temi forti, che scorrono veloci, fra il fluire musicale di chitarra e voce e un dire profondo e commosso, scevro da compiacimenti mattatoriali, che fanno trattenere il fiato in un’ora di spettacolo. Alla fine, l’applauso liberatorio, occhi lucidi, e, si spera uno sguardo diverso verso il prossimo.