mercoledì 2 marzo 2016
Non è l'ISLAM il nemico da battere ma l'ingiustizia
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Siamo in guerra, si stanno ripetendo in molti: e quindi, à la guerre comme à la guerre . Ma attenti perché, tanto per continuar con le espressioni francesi, quella contro l’islamismo – che non è la fede islamica, bensì la sua tragica caricatura in termini ideologici, un “ismo” (al pari del fascismo o del comunismo) che tratta Dio e la religione come pretesti per una politica di potenza – è sul serio una drôle de guerre , che qui in Europa va combattuta con gli strumenti e le risorse dell’antiterrorismo, l’intelligence anzitutto, mentre nel Vicino Oriente vuol vederci, per forza di cose, sul terreno in quanto là, a differenza di qua, il nemico adesso rappresentato dall’Is (Daesh) vanta una sovranità territoriale de facto che gli va strappata: il califfo al-Baghdadi è un brigante che si comporta come se fosse un capo di Stato e i suoi seguaci gli vanno sottratti uno ad uno o battendoli sul campo o convincendoli ad abbandonare la sua causa e a passare alla nostra. Perché questa è una guerra anche, anzi soprattutto, ideologica, contro mujahiddin (combattenti del jihad , dello “sforzo sulla via gradita a Dio”) e foreign fighters (uomini o magari anche donne, spesso giovani, che all’opulento vuoto di valori offerto loro dall’Occidente, cui hanno voltato le spalle, hanno preferito il fiammeggiante e sanguigno orizzonte del paradiso all’ombra delle spade). Una guerra dove non basta vincere, bensì occorre anche e soprattutto convincere. Siamo davvero in guerra? Ma allora è indispensabile cominciar col capire bene chi è il nemico e chi sono invece gli alleati; e se tutti gli alleati sono davvero tali, e se tali sono tra loro o fanno in qualche misura il doppio gioco. E allora attenzione. Qui da noi, che cosa vuole il califfo che ci fa colpire dagli attentati terroristici? Egli vuol costringerci ad abbandonare il ritmo della nostra usuale vita civile, a vivere come talpe in un sistema di “sicurezza” cioè di paura continua, a perder la testa per lo sgomento o per la rabbia fino a commettere gesti inconsulti: che magari si traducano in atti di guerra insensati, in una tempesta di fuoco che ci abbatta sull’area conquistata dall’Is (Daesh) e che, più che i suoi guerriglieri, stermini quegli innocenti iracheni e siriani che il califfo-brigante tiene praticamente come ostaggi, che magari non lo amano affatto ma che finiranno con il preferirlo ai “liberatori” occidentali se questi ultimi colpiranno alla cieca ammazzando più loro che non i miliziani, i politischen Soldaten di al-Baghdadi. Il quale di una cosa ha soprattutto bisogno: di shuhadà , di “martiri della fede” che dimostrino a tutto l’islam sunnita in via di proletarizzazione del mondo che lui e solo lui è il rappre- sentante supremo della fede.  Per affermare davvero quel che dice di essere, il “comandante dei credenti”, il califfo deve farci paura a casa nostra fino a indurci a perdere la testa e a rinunziare al nostro ordinario way of life e magari agli stessi valori in cui crediamo, cedendo la nostra libertà in cambio di uno straccio d’illusoria sicurezza in più; e a combatterlo sul suo terreno, sull’area che ancora controlla nel Vicino Oriente, ripetendo gli errori che già abbiamo commesso in Afghanistan e in Iraq e alienandoci le popolazioni delle quali ha più o meno il controllo ma sulle quali non esercita affatto un ampio e profondo consenso. Nella sua trappola è pesantemente caduto dopo la strage parigina di novembre il presidente francese François Hollande, con la sua proclamazione dello “stato d’emergenza” che ha obbedito al diktat terroristico sconvolgendo la vita civile dei francesi e ha adempito ai voti califfali con la tanto poco efficace quanto inconsulta risposta militare dei raids vendicatori su Raqqa, i quali a suo dire non avrebbero fatto vittime civili mentre hanno invece regalato al califfo la simpatia dei familiari di esse ai quali il tiranno islamista avrà finito col sembrare migliore del democratico sterminatore alla cieca. Va detto, d’altronde, che i raids russi di qualche settimana prima, per quanto indirizzati a un territorio siriano, previo, però, accordo con il legittimo governo della regione, avevano a loro volta fatto centinaia di vittime civili. E stiamo in campana. Lo Stato-fantoccio califfale, questa barbarie senza legge (soprattutto priva di legge divina, anche di quella concepita alla luce del diritto islamico), lo batteremo. Non so quando, non so a quale prezzo: ma lo batteremo, e presto per giunta. Solo che non sarà finita. Non finirà così. Siamo ormai entrati in un tunnel dal quale non emergeremo troppo presto perché il ventre che ha partorito l’orrore del fanatismo terrorista è ancora pregno, erutterà altri mostri e poi altri ancora. La radice dei mali del mondo attuale, di questo lungo e tumultuoso momento di passaggio – a dirla conZygmunt Bauman – dalla “Modernità solida” con le sue granitiche, brutali certezze fondate sulla forza e sul profitto, alla “Modernità liquida” con le sue incertezze e la sua febbrile ricerca di un nuovo equilibrio, è la profonda ingiustizia nella quale l’umanità sta affondando, l’abissale sperequazione che la domina e che ormai l’informazione globalizzata sta rendendo nota a tutti nella sua insensata insostenibilità. È il mondo delle oscene, insopportabili disuguaglianze lucidamente denunziate nell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco, la Mater terribilis, ancora e sempre mostruosamente feconda, dei mostri che stiamo affrontando e che dovremo nell’immediato futuro affrontare. Non è l’islam che ci minaccia, nonostante l’indubbia componente guerriera e perfino violenta della sua cultura che è però, appunto, una componente. E nemmeno il suo perfido e ridicolo succedaneo ch’è l’islamismo. È contro l’ingiusto assetto del mondo, contro l’assurdo squilibrio di un’umanità divisa fra pochissimi troppo ricchi e una sterminata moltitudine di troppo poveri, che è necessario volgerci. Quello è il nemico da battere.
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