Domenica alla Rocca Brancaleone Muti ha diretto l’Orchestra giovanile Cherubini - Silvia Lelli
La bacchetta infilata nella partitura dell’Exsultate, jubilate di Wolfgang Amadeus Mozart. La giacca doppiopetto aperta. «Stasera non abbiamo suonato per l’applauso o per cercare il trionfo, quasi non abbiamo suonato nemmeno per il pubblico, lo abbiamo fatto per noi stessi, per il piacere di esserci ritrovati insieme dopo aver passato mesi chiusi in casa a fare musica da soli». Qualche goccia di pioggia, giusto una nuvola di passaggio, nell’aria limpida della prima sera d’estate a Ravenna: Riccardo Muti esce dalla Rocca Brancaleone. Nessuno a chiedergli una foto o un autografo, stasera non avrebbe senso perché è una di quelle sere che vanno custodite nel cuore. Mancano una manciata di minuti alla mezzanotte e si sentono solo i grilli che cantano tra l’erba che cresce tra i mattoni della Rocca. Lo hanno fatto per tutta la sera, discreti, contrappuntando le note del concerto inaugurale dell’edizione 2020 di Ravennafestival. Cartellone ripensato a causa del coronavirus, ricollocato tutto all’aperto, nella cornice della Rocca Brancaleone dove proprio trent’anni fa, sempre con Muti, iniziava l’avventura della rassegna romagnola.
Domenica una nuova partenza, il ritorno della musica dal vivo dopo mesi di teatri chiusi. «Speriamo, però, che non sia un fuoco di paglia, un bagliore destinato a spegnersi presto», auspica il direttore d’orchestra che poco prima, scendendo dal podio, aveva guardato dritto negli occhi il ministro dei Beni e delle attività culturali Dario Franceschini e la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati salutandoli con un: «Mi raccomando a Roma». Chiaro messaggio alla politica, come quello lanciato a inizio serata: «Far ripartire la musica è un atto di coraggio», aveva detto Muti prima di attaccare l’Inno di Mameli per ribadire, ancora una volta, «che la cultura è un patrimonio imprescindibile per l’Italia». Tutti in piedi – in prima fila Audrey Azoulay, direttore generale dell’Unesco, e il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini – a sussurrare, dietro la mascherina, «Fratelli d’Italia / l’Italia s’è desta». Si ha quasi timore ad alzare troppo la voce: ci saremo rialzati davvero? Ed è ovattata, irreale l’atmosfera che precede l’inizio del concerto, perché non c’è quel vociare che solitamente si sente in platea prima che le luci si abbassino.
Sarà perché si è invitati gentilmente a stare al proprio posto, distanziati: i familiari seduti uno accanto all’altro, chi è solo a un metro (e più) di distanza dal vicino. E nemmeno in coda fuori dalla Rocca si osa parlare troppo forte. Si passa dal termoscanner. Gel igienizzante per le mani e mascherina chirurgica consegnata all’ingresso. La indossano anche i ragazzi dell’Orchestra giovanile Cherubini mentre accordano gli strumenti, ognuno al proprio leggio, distanziati sull’ampio palcoscenico. Entra Muti. I ragazzi tolgono le mascherine. Può farlo (lo autorizza il protocollo messo a punto con i pareri positivi di politica e sanità) anche chi è in platea. E la sensazione è quella di una barriera che cade per ascoltare (quasi respirare) la musica in piena libertà. La musica di Aleksandr Skrjabin, Rêverie, «un augurio perché questo sogno che stiamo vivendo tornando a fare musica possa essere la nostra nuova realtà. Per noi e per tutti gli artisti che nel mondo hanno sofferto e stanno ancora soffrendo ». Poi tocca a Mozart. Due pagine sacre, l’Exsultate, jubilate e l’Et Incarnatus est dalla Messa in do minore, che Muti fa diventare il cuore del concerto.
L’invito alla gioia perché «sono fuggite le nuvole e le tempeste. Ovunque regnava la notte e ora svegliatevi felici voi che sino ad ora avete temuto» come canta il soprano (un’intensa e commovente Rosa Feola) prima di alzare il suo Alleluia, parola antica che annuncia la vittoria della vita sulla morte. Poi la certezza che Et Incarnatus est, che Dio «si è fatto uomo» nella fragilità e nella disarmante semplicità di un bambino per essere vicino all’uomo, per condividerne le sofferenze. Messaggio di speranza per chi ha attraversato la notte. Speranza che c’è nella lettura meditativa che Muti imprime alla Jupiter, intima, ripensata da capo e restituita come una riflessione tutta interiore (in musica) su ciò che abbiamo vissuto. «Ho sofferto a stare a casa perché sono uno che crede nella libertà. Nel periodo del silenzio ho studiato la Missa solemnis di Beethoven, un monumento che mi ha tenuto compagnia. Non vedevo, però, l’ora di tornare a fare musica dal vivo», racconta Muti mentre i ragazzi, spenti gli applausi, scendono a turno dal palco. «Hanno suonato distanziati, ognuno al proprio leggio girandosi le pagine. Questa è l’Italia buona», dice rivolgendosi ancora alla politica alla quale non risparmia una stoccata: «Gli Stati generali? Non mi hanno chiamato, ma forse non ci sarei neanche andato: non basta esporre un’idea che dopo muore lì. Seul ha 18 orchestre sinfoniche e anche la Cina ha capito che per entrare in un Paese ci si deve impossessare della sua cultura. E in Italia ci sono regioni che non hanno un’orchestra. Perché? Chi ha parlato delle bande in questi mesi? Perché non si riaprono i teatri chiusi e li si affidano ai giovani?» si scalda Muti parlando del futuro delle nuove generazioni come di «un problema morale al quale la politica deve dare una risposta. Questa ripartenza è stata fatta da giovani che hanno una grande incertezza per il loro futuro: se qualcuno sarà costretto a lasciare la musica sarà un delitto enorme di cui il nostro paese si macchierà», dice prima di slacciarsi la giacca e riporre la bacchetta nella partitura dell’Exsultate, jubilate.