Alessandro D'Avenia e Giacomo Poretti insieme a teatro
A teatro si può riflettere, ridere, commuoversi, sentirsi messi in discussione. O tutte queste cose insieme, il che è decisamente più raro. Ma succede, e quando succede allora è davvero una serata speciale. Come quella che martedì ha visto insieme sulla scena Alessandro D’Avenia e Giacomo Poretti nelle vesti di padrone di casa nel “suo” Teatro Oscar, lo scrigno di libertà creativa in via Lattanzio, accanto alla parrocchia di San Pio V, dove semina con coraggio e allegria un teatro di parola e di relazioni, con lo stile di una casa sempre aperta per gli amici. Alcuni di questi, a cadenza periodica, li porta sul palco, senza soggetto né copione, con la sola disponibilità di farsi conoscere. Sorridendo, sì, ma senza esagerare.
Lo scrittore palermitano e l’attore milanese, dotto ed eloquente l’uno, accogliente ma dissacratore e armato delle sue battute fulminanti l’altro, lontani per indole ma prossimi nel dialogo secondo la formula del “PoretCast”, il format che Giacomo si è cucito su misura giocando sulla moda dei podcast e chiamando in causa personaggi dello sport, dell’arte, della cultura. Un salotto sempre tutto esaurito (prossima puntata l’8 con Rocco Hunt). La combinazione tra i due lasciava presagire che sarebbe stato un confronto da non perdere. Ipotesi confermata da più di un’ora trascorsa volando sopra i tetti della quotidianità, da Socrate a Omero, dalla scuola alla vita, per arrivare a Dio come approdo della ricerca umana. Improbabile tanta seriosità, con Giacomo di mezzo? Certo che sì, ma l’attore con il frasario e la gestualità che lo rendono ancora uno dei più amati ha trovato nel sobrio humour dell’amico scrittore una spalla perfetta, a formare un imprevedibile duo comico. Sarà per il desiderio di cogliere insieme, dentro la vita, il filo di una ricerca e un’attesa che sono il motivo per il quale D’Avenia scrive (e insegna) e Poretti non riesce a sentirsi pago della carriera con il Trio.
E allora, eccoli perdersi come due ragazzi nel bosco delle parole, con Giacomo che spinge Alessandro ad aprire generosamente la sua dispensa di cose buone: cominciando dalla scuola, che per lo scrittore è «luogo della cura delle persone e del mondo», mentre ci siamo abituati a coniugarla come «obbligo, rendimento, crediti, debiti»: «Dovremmo giustificare non l’assenza ma perché siamo presenti: che ci fai, qui?», che a ben vedere vale per qualsiasi ambiente di vita. Allargando il cerchio, «ognuno di noi deve sentirsi invitato a capire la verità di sé, quale luce solo lui è in grado di portare nel mondo, la propria bellezza irripetibile in tutta la storia dell’universo». Vista così, ogni persona è «sacra» perché porta qualcosa di «immortale». Si tratta allora «non di essere viventi ma vivi». Poretti alimenta il fuoco di D’Avenia, strizzando l’occhio alla platea, come davanti alle citazioni più colte dell’amico («dai, come te la tiri...»). Ma poi è lui stesso a chiedere di Dio: «Non pensi che ci sia una vera emergenza spirituale?». D’Avenia non aspetta altro: «Spirituale è ciò che fai tutti i giorni, la quantità di amore che metti nel fare le cose. La domanda sul senso – perché vivo, per chi sono pronto a morire – ci restituisce un destino. Ridà vita a ogni giorno». Fortuna che a Milano si può contare su un teatro così. (Info: www.oscar-desidera.it)