martedì 1 gennaio 2013
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Ho insegnato in momenti durissimi per il Biblico, perché erano gli anni ’62-’63-’64, quando era al massimo la crisi contro l’esegesi storico-critica. Il Biblico sembrava dovesse naufragare. Ricordo che quando mi chiamarono qui, pensavo: «Mi chiamano in una nave che sta per naufragare». Abbiamo cercato di remare, di resistere e così quei tempi sono stati superati. Fu merito del nuovo papa Paolo VI di restituire l’onore, la fiducia all’Istituto Biblico. Furono anche i tempi del Concilio: quindi momenti di entusiasmo e insieme di paura. Anni molto combattuti, ma molto belli perché a poco a poco la Dei Verbum nacque qui. Ricordo giorno dopo giorno le discussioni che si facevano: i vescovi che venivano per consultarsi; i testi che si rivedevano... Tutte cose che la storia del Concilio non potrà scrivere se non in parte. La Dei Verbum fu appunto quasi una riaffermazione e una conferma del cammino dell’Istituto Biblico. Quando diventai vescovo nel 1980 mi proposi come programma pastorale, anche senza dirlo, di mettere in pratica nella Chiesa il capitolo VI della Dei Verbum; mi sembra un programma pastorale straordinario, che ha una base conciliare solida e che comporta tante conseguenze. Ho insegnato un po’ in quegli anni, cominciando con la critica testuale, e con molto gusto, con molta passione, ma poi l’obbedienza mi ha chiamato prima ad essere decano del Biblico, poi dopo due anni rettore, quindi – dopo 9 anni – rettore alla Gregoriana. Adesso che ho quasi terminato il servizio ecclesiale, se il Signore mi dà vita, conterei di ritornare al lavoro scientifico di critica testuale, perché mi pare che sul tema della storia del testo greco nei secoli II e III, è stato fatto poco. È un lavoro molto arido, un lavoro di retrocucina, non è neanche una cucina. Pochi hanno voglia di farlo, invece a me piaceva perché dà il gusto del romanzo poliziesco: bisogna trovare l’assassino, bisogna fare un’ipotesi e vedere se la pista è giusta. Quindi mi piacerebbe riprendere questo lavoro perché sono convinto che il lavoro che ho fatto per oltre 22 anni come vescovo a Milano è un servizio di Chiesa, che avrà un suo effetto, ma poi scompare, viene dimenticato. Mentre il lavoro scientifico fatto sui testi può servire, se è veramente serio, anche per le generazioni successive. Penso che la Chiesa si serve in un modo e nell’altro, e sono contento di averla potuta servire in un modo e nell’altro; se posso continuerò a servirla nel silenzio, nella preghiera e nello studio scientifico.
Questo per dirvi quanto mi ha dato il Biblico. Veramente se come vescovo ho potuto far amare la Scrittura, era perché avevo dato tanto. Ricordo quando venni al Biblico la prima volta, studente timoroso nel settembre 1954, avevo in mente questo verso di Dante, che dice a Virgilio: «Vagliami il lungo studio e il grande amore che m’ha fatto cercare lo tuo volume». Ecco, io applicavo questo al «volume» della Scrittura, all’amore, al desiderio, quasi al fanatismo di capirne ogni parola, di penetrarne il senso, di gustarla; per questo mi piaceva tanto la critica testuale: perché prende le parole e le pesa, le soppesa come parole analoghe, come varianti e quindi è come gustare, masticare il testo. Questa è l’esperienza che ho fatto e che mi ha permesso a Milano, in mezzo a tanti problemi di amministrazione ecclesiastica, di continuare in qualche modo a servire la Scrittura, prendendo come riferimento – come ho detto – il Concilio Vaticano II e il capitolo VI della Dei Verbum, e soprattutto quel punto dove dice: «Ogni cristiano deve acquistare una familiarità orante con la Scrittura». Quindi la lectio divina: non solo insegnare la Scrittura, l’esegesi, ma imparare a pregare a partire dalla Scrittura. E in tutti questi anni in centinaia di incontri con i giovani, con gli adulti, con gli esercizi spirituali, con i non credenti ho cercato sempre innanzitutto di pregare io a partire dalla Scrittura e poi di aiutare a pregare a partire dalla Scrittura. Se resterà qualche cosa sono contento. Hanno fatto una celebrazione in mio onore nel Palazzo dello Sport con rappresentanti di tutta la diocesi, e ho visto che il tema che avevano ritenuto era proprio questo: «Sulla tua parola getterò le reti». Quindi il tema della Parola è entrato abbastanza, poi ci vogliono secoli evidentemente; ogni generazione deve riprendere questo tema.
Come vescovo ho fatto tre grandi esperienze di comunicazione della Parola.1) La Scuola della Parola per giovani, che ho cominciato a tenere in Duomo fin dai primi mesi di episcopato, vedendo con sorpresa come i giovani riempivano sempre più il Duomo fino ad essere anche quattro, cinque, seimila ad ascoltare e non era né una catechesi né un’esegesi, ma un tentativo di metterli di fronte al testo biblico, perché personalmente vi reagissero con una riflessione e una preghiera. L’esperienza è continuata e siccome il Duomo non bastava più abbiamo moltiplicato le proposte, la Scuola si teneva in circa 50-60 chiese della diocesi ogni mese condotta da altri preti o laici; anche se ho sempre avuto il principio che, quando una cosa va bene, bisogna troncarla, incominciarne un’altra, perché quando va bene vuol dire che comincia l’abitudine.2) Gli esercizi spirituali biblici sono l’altra grande esperienza che mi hanno dato molto. In tantissime parti del mondo, non solo in diocesi, ho dato esercizi spirituali dove ogni volta, pur mantenendo la struttura di sant’Ignazio che mi è molto congeniale, prendevo come tema un libro o un personaggio della Bibbia: Davide, Abramo, Mosé, il Vangelo di Marco, Paolo, Pietro... Cercando per una settimana di penetrare insieme agli ascoltatori il testo relativo. E ho sempre voluto cambiare libro proprio per non ripetermi, perché è odiosissimo ripetersi – per me almeno – e l’idea era di essere stimolato ogni volta, anche se non avevo tempo, a studiare molto, a mettermi di fronte a un nuovo libro biblico e a cercare di penetrarlo non tanto in una lectio esegetica continua, ma cercando il dinamismo interno di conversione che il libro suscita. Anche questo è un tipo di ricerca interessante.Si tratta di un’altra esperienza che ho fatto in tante parti del mondo perché ho cercato di dare almeno un corso nel mese di luglio, quando a Milano per il troppo caldo non c’è più nessuno; sono andato in Ciad, in Zaire, in Giappone, a Taiwan, in Messico, in Venezuela, negli Stati Uniti, ogni volta dando un corso di esercizi con un tema diverso. In questo mi ha aiutato molto vedere che, pur parlando a culture diversissime da Taiwan a Tokyo, a Guadalajara, a Caracas, in California, tuttavia la Scrittura parla ovunque; non mi sono mai sforzato di fare chissà quale salto culturale, mi sono detto: «Prendo la Scrittura». E la Scrittura è così umana, così profonda, tocca così profondamente le corde intime del cuore che viene ascoltata ovunque. È stata un’esperienza molto bella, arricchente; io stesso – come dice san Gregorio Magno – ho imparato molto spiegando così la Scrittura. Perché allora diventava nuova anche per me.3) Una terza ed ultima esperienza è stata la cosiddetta Cattedra dei non credenti, che non è di per sé un’iniziativa biblica, ma nasce dalla Scrittura. «Dice l’empio: non c’è Dio», dunque ascoltiamo l’empio. Cioè chiamiamo in cattedra non credenti a spiegarci perché non credono. Poi non facciamo con loro un dibattito o una conferenza apologetica, cerchiamo di ascoltarci. Con la percezione che c’è in ciascuno di noi, almeno in me, una duplice personalità: un credente e un non credente che continuamente fa obiezioni, pone domande, problemi. Allora diamo voce pubblica e chiamiamo non quelli che vanno già in Chiesa; l’ingresso era permesso solo a persone in ricerca, non credenti. Ho avuto la sorpresa che quando facevamo questi incontri c’era una fila già un’ora e mezza prima per prendere il posto, benché tutto funzioni per inviti personali, 2000 inviti per circa 1800 posti che si riempiono tutti. L’ultimo incontro lo terrò il 28 maggio in un ambiente laico, un’università statale, senza preghiere perché molti non sono credenti né praticanti. Il tema questa volta sarà: «Domande sulla Giustizia», e io vorrei trattare di quali domande sulla giustizia mettono in crisi la mia fede. Affronterò un problema grave per cercare di inquietare le coscienze e di suscitare le risposte, senza darle io possibilmente, ma stimolando le persone. Ho visto che questo modo di parlare attira molti non credenti, perché non si sentono quasi accalappiati, ma stimolati e quasi ascoltati.
Ecco, queste sono alcune cose che mi sono state suggerite dal contatto con la Scrittura e mi hanno aiutato a parlare con la gente, ad ascoltarla. Anche se uno come me – giunto al termine del suo cammino – si accorge che le lacune e le cose non fatte sono molto più di quelle fatte. Per questo ho scritto l’ultima mia lettera pastorale sulla triplex confessio: confessio laudis, ciò per cui ringrazio Dio; confessio vitae, ciò di cui ho mancato e di cui chiedo perdono alla mia gente, alla mia diocesi; confessio fidei, ciò in cui confido per cui Dio ci aiuterà e perdonerà. Questo per dirvi qualche cosa di sconnesso, ma frutto della mia esperienza.
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