Una barca sul mare, nella notte: quattro pescatori tirano a bordo le reti. Su un’altra, abbandonata sopra la banchisa del porto di Catania, di giorno Ahmed mangia, si lava e prega. Aspetta un futuro. Entrambe, sono il luogo di una vita dura, della sopravvivenza. Michele Pennetta, trentenne regista di Varese, studi svizzeri, famiglia a Losanna, le ha voluto protagoniste, non solo come simboli, del suo primo lungometraggio, Pescatori di corpi, in concorso al Festival di Locarno nella sezione “Cineasti del presente”. Due storie corrono in parallelo, per descrivere la realtà di un’isola e di un Paese abituati a convivere con la tragedia quotidiana degli immigrati clandestini, dei profughi e dei cadaveri in mare. «Ho cominciato quattro anni fa ad interessarmi alle corse clandestine di cavalli su strada – ricorda il regista –, non ero mai stato in Sicilia prima d’allora. Avevo solo letto un articolo di giornale. Sono stato avvicinato dal figlio del proprietario di una scuderia, filmata nel mediometraggio ’A iucata, diventando parte di questo universo nascosto. Però quello che mi interessava davvero non erano le corse, ma la relazione tra padre, figlio, animale e il contesto della clandestinità che li avvolgeva. Essere entrato in questo spazio di illegalità locale mi ha reso poi possibile girare Pescatori di corpi »
Come è avvenuto il passaggio dalla clandestinità dei cavalli a quella degli immigrati? «In realtà avevo all’inizio uno sguardo molto naïf su quel mondo. Poi ho capito che l’illegalità diffusa, che diventa quasi legale, era il mio vero interesse. Un atteggiamento che interessava anche il fenomeno dei profughi nell’Italia meridionale. Cercavo il modo di farne il soggetto del mio primo film, che non voleva essere l’ennesimo documentario sull’immigrazione».
Quale percezione aveva del fenomeno? «Mentre stavo in Sicilia era scoppiata la drammatica crisi dell’immigrazione, si parlava tantissimo degli approdi, degli scafisti, dei sopravvissuti. Ma le sole notizie riguardavano Lampedusa, mentre anche a Catania o a Portopalo accadevano le stesse tragedie. Per quattro mesi ho vissuto a contatto con i migranti nei centri di accoglienza e nel Cara di Mineo – una vera prigione al centro della Sicilia –, con i volontari della Croce Rossa, raccogliendo ogni genere di informazione».
Nel suo film l’immigrato non lo vedi mai, ne cogli la presenza per le notizie che vengono lette in televisione, gli avvisi che arrivano delle altre imbarcazioni, un paio di pantaloni e di scarpe impigliati nella rete da pesca. «Questa scelta è nata dall’ossessione che avevo provato per l’indifferenza con la quale erano ascoltati e vissuti quei fatti così tragici. L’indifferenza non solo delle persone, della gente, ma dello Stato e dell’Unione Europea, che avevano lasciata sola la Sicilia nel fronteggiare questa crisi umanitaria. Una indifferenza, per questo, non solo del pescatore e del cittadino, ma molto più globale, che toccava i vertici dell’amministrazione e della politica. Volevo metterla in un film, raccontarla. Indifferenza di cui anch’io mi sento di far parte: non ci scomponiamo quasi più davanti alle immagini dei cadaveri su una spiaggia. Una sorta di bombardamento mediatico che ha indebolito le coscienze, la volontà di reazione. Ma dovevo trovare un altro punto di vista, indiretto rispetto alla tragedia. Così ho incontrato i pescatori, che ogni giorno trovano nelle loro reti ossa, passaporti, vestiti, scarpe, oggetti che rimandano a un corpo. Per questo il titolo evoca i corpi, ma il film non li mostra. Fanno parte di quella melma in cui i miei pescatori mettono ogni notte le mani, dove i pesci soffocano. Quella melma che nel fondo del mare conserva memorie e vite spezzate».
Come ha lavorato su questa barca, che solca di notte il mare? «I pescatori che ho contattato sono stati molto disponibili. Li ho informati che li avrei seguiti con una telecamera, ho spiegato che non avrei raccontato nel film la loro attività illegale, ma un’altra realtà. L’immagine che mi ha colpito è quella del loro rituale notturno, quando smistano il pesce come se fossero zombie, e della loro indifferenza quando trovano altro, che rimanda alle persone, all’immigrato, che sentono come persona non grata. In realtà sono stati costretti dalla legge italiana a nascondere la loro umanità, perché ogni volta che aiutavano clandestini in mare diventavano in modo paradossale corresponsabili di un reato e la loro barca veniva sequestrata».
Poi nel film si è inserita la storia di Ahmed. «Avevo notato dei panni stesi su una barca abbandonata nel porto di Catania, mi ero incuriosito. L’ho incontrato qualche giorno dopo l’inizio delle riprese. Era fuggito dieci anni fa dall’Iraq, transitato in Egitto e arrivato in Sicilia, da cui non poteva andarsene».
Nel film ci sono anche i gabbiani che volteggiano nel cielo e un cane sulla spiaggia, col quale termina il film. «I gabbiani seguono costantemente i pescherecci. Trovavo bello e inquietante, senza essere melodrammatico, usare quel loro verso per evocare le grida soffocate, strozzate dei naufragi che annegano in mare. Infatti, lo si sente subito dopo che la televisione annuncia un ennesimo naufragio. Il cane, invece, fa parte di un gruppo di randagi che vive in questo cimitero di barche nel porto. Gioca con una boa con una scritta in arabo: Omar. Un oggetto che richiama ancora una volta le tragedie del mare. È l’epilogo del film. Il suo sguardo è il mio».