Giovanni Ottolini, come sta la danza in Italia in tempi di crisi?Non sta benissimo. Ma non stava tanto bene nemmeno prima. A fronte di una certa stanchezza registrata in teatro, negli ultimi dieci anni la danza ha visto un notevole incremento di pubblico, trascinato anche da un vivace ed efficace rinnovamento della scena. A tutto questo, però, non sono corrisposte adeguate politiche pubbliche.
Cosa intende?È vero, è stato scongiurato il taglio del Fondo unico per lo spettacolo: magra consolazione, però, aver strappato solo il mantenimento dello status quo. La danza prende il 2,5% del Fus i cui fondi per metà vanno alle fondazioni lirico-sinfoniche. Abbiamo lottato, ma invano, per avere almeno il 3%.
Un'esigua fetta della torta che siete in molti a contendervi.Tanto più che anche gli enti locali, preziosi interlocutori per chi lavora sul territorio, sono costretti a tagliare. Noi siamo fortunati: seppur a fatica e applicando anche noi una rigida spending revew abbiamo chiuso il 2011 con un bilancio in pareggio anche grazie ai contributi dei soci pubblici (la Regione Emilia Romagna e il Comune di Reggio Emilia) che, nonostante le difficoltà, hanno deciso di non decurtare i contributi alla cultura. A tutti questo si aggiunga che gli sponsor, visti i tempi di crisi per tutti (e per noi in Emilia viste le necessità della ricostruzione post-terremoto), sono diventati merce rara. Detto questo serve una revisione delle modalità di assegnazione del Fus: contributi a pioggia non servono.
Quali criteri applicare?Occorre fare delle scelte, dare sostegno a quelle realtà che hanno un riconosciuto profilo internazionale e non solo appoggi politici. Nei meccanismi di assegnazione dei contributi del Ministero, poi, ci sono voci distinte per produzione, formazione e distribuzione: occorrerebbe unificarli perché bisogna pensare alle istituzioni che operano nel campo della danza a 360 gradi. Occorre sostenere chi investe sui giovani talenti, ma giovani davvero e non cinquantenni che vengono fatti passare per giovani. Necessità che andiamo ripetendo da tempo, ma che restano lettera morta in quanto in Italia da anni siamo di fronte a una volontà di non scelta.
Quali quelle più urgenti?Partiamo dall'analisi della realtà: il 2012 sarà un anno faticoso, ma il 2013 è per tutti una grande incognita perché i teatri decidono in ritardo le loro stagioni e le compagnie non hanno ancora certezze di ingaggi. Nonostante questo Aterballetto si sta cimentando con un piano triennale di programmazione i contratti con l'estero, specie con la Germania, dove abbiamo impegni sino al 2014, ci impongono tali ritmi e sarebbe positivo che anche il Ministero per i Beni e delle attività culturali tornasse a queste tempistiche. Occorrerebbe poi un alleggerimento della burocrazia e un allentamento della pressione fiscale perché lo Stato con una mano offre, ma con l'altra riprende. Un eccesso di tasse dirette e indirette appesantisce la possibilità di fare impresa.
Come spiega questa disattenzione? Solo miopia culturale?Il dato preoccupante è che lo spettacolo non è considerato un settore produttivo e quindi viene tenuto ai margini. Il nostro modello, però, dimostra il contrario. Ci ispiriamo alle touring company del Nord Europa: facciamo contratti di 11 mesi rinnovabili (vedremo cosa ci riserva la riforma del mercato del lavoro dato che i previsti stacchi di 90 giorni tra una scrittura e l'altra per noi sarebbero deleteri) e abbiamo relazioni sindacali tranquille. Un modello di semistabilità che regge da trent'anni e che, applicato in un teatro pubblico, non reggerebbe alle logiche corporativistiche e sindacali. Ecco perché sarebbe utile che i sindacati cominciassero a denunciare le situazioni che non vanno nei teatri e che fanno male alla danza, invece che lottare per difendere privilegi.
A differenza di altre forme d'arte la danza è ancora capace di riempire i teatri: come se lo spiega?Non credo al fenomeno Amici, credo piuttosto che il pubblico, per precise ragioni culturali, scelga la danza dove l'attenzione al linguaggio del corpo rimette al centro e ripone nel giusto solco il corpo stesso, spesso utilizzato nella comunicazione in modo improprio. Certo, la funzione divulgativa di alcuni personaggi, penso alla Fracci di ieri o al Bolle di oggi, aiuta. La sfida, però, di fronte al crescere del pubblico raddoppia perché solo se si fa della buona danza il pubblico tornerà, altrimenti il rischio è di perderlo per sempre.