giovedì 22 maggio 2014
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Un paesino sul Mare del Nord. Una piccola comunità puritana, governata da due anziane sorelle. Una cuoca francese e comunarda, fuggita alle repressioni. Sono gli ingredienti de Il pranzo di Babette, uno dei racconti più belli della scrittrice danese Karen Blixen, divenuto poi celebre e premiatissimo film. Lella Costa li farà rivivere domani sul palco del Teatro Manzoni a Pistoia, all’interno della quinta edizione di Dialoghi attorno all’Uomo, una tre giorni in cui la città toscana ospita incontri, letture, spettacoli e proiezioni, quest’anno centrati sul tema "Condividere il mondo. Per un’ecologia dei beni comuni". «Il suggerimento mi è arrivato dalla direttrice del festival Giulia Cogoli – spiega l’attrice – e a ragione, perché questo testo narra attraverso una storia, senza didascalie né comizi, il senso profondo della condivisione. È il racconto, perfetto, di un piccolo complotto messo in atto a fin di bene da questa donna per consentire un momento di felicità autentica a persone che non hanno saputo o potuto permetterselo. È un testo che non ha bisogno di interventi, è già ricco di suggestioni. Il solo lavoro a cui è stato sottoposto è stato portarlo a una dimensione compatibile con l’ascolto. Per me è una bella sfida perché mantenere alta l’attenzione nella pura lettura di un testo scritto non è facile».Qual è per lei il vero senso della condivisione?«Credo parta dalla consapevolezza, che non tutti hanno, che felicità e benessere non sono possibili se non sono collettivi. Lo stare bene non può prescindere dalla condivisione. Non esiste davvero un benessere individuale. Se la felicità non è condivisa si dovrebbe provare un po’ di vergogna, o almeno un po’ di imbarazzo... E la condivisione si costruisce innanzitutto dal rendere grazie. Insieme alla gratitudine, però, ci vuole l’atteggiamento di chi sta in guardia. Il segreto è la capacità di riconoscere, di stare sempre in ascolto. Sono l’attenzione e l’apprendimento continui che nelle Città invisibili di Calvino Marco Polo racconta al Kublai Khan come unico modo per non soffrire nell’"inferno dei viventi" che è il mondo: "cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio"».“Il pranzo di Babette” è anche una storia di artiste e di pubblico...«Sì, ha ragione. E vi ho ritrovato una cosa che conosco bene: l’infinito profondo piacere del far felici gli altri. Quello che provo dopo uno spettacolo è la gioia che mi arriva dal pubblico, centuplicata».Che idea di femminilità esce dal “Pranzo di Babette”?«Ne escono di diverse, ma quella che mi intriga di più è l’essere a servizio degli altri come scelta consapevole. Un servizio animato dal principio di bellezza e non perché non si conoscono alternative. Qui nessuno sale in cattedra e spiega le idee altrui. Babette non vuole insegnare agli altri a vivere. Vuole ringraziare. Lei ha pagato un prezzo per le sue idee e le sue scelte: di questo cammina leggera. È grata per essere stata accolta. E questo basta». Cosa significano ricchezza e gratuità quando si parla di arte?«Io faccio molte cose gratuitamente per cause in cui credo. C’è però un equivoco che forse soltanto la pratica psicanalitica ha messo in chiaro senza falsi pudori: esiste un rapporto sancito da uno scambio di denaro che consente reciproca libertà e scelta. Soprattutto d’estate, anche se oggi con la crisi sempre meno, i comuni offrono ai cittadini o ai turisti eventi gratuiti. Quando vengo chiamata chiedo in questi casi che ci sia un biglietto, anche minimo, di ingresso. Perché altrimenti il pubblico pensa che valga di meno, che si possa entrare ed uscire. E non dà valore a un lavoro. È il motivo per cui non ho mai fatto repliche di spettacoli per le scuole. Perché credo che siano una cosa sbagliata. Il teatro ha liturgie e regole che non sono quelle di una platea indifferenziata, sbattuta lì senza scelta».Che differenza c’è tra le portate di Babette e l’ossessione del cibo che imperversa in questi tempi?«Un abisso. Là c’è il senso del dono, qui la pornografia alimentare, come la definisce Carlo Petrini. Nel Pranzo c’è un desiderio di compiacere, di condivere i talenti. È un paradosso contemporaneo quello di un cibo sempre più scarso per tutti mentre i pochi altri lo trasformano in un feticcio. Secondo Petrini il cibo deve essere buono, pulito e giusto. Credo che Il pranzo di Babette lo sia. È un evento, e quindi è eccezionalità. La pornografia alimentare contemporanea dice invece che devi vivere sempre così. È il senso delle occasioni, dello scandire il tempo della quotidianità e della festa, chiaro un tempo e oggi perduto. E che invece è centrale nel racconto di Blixen. Ogni epoca, mi perdoni il calembour, ha bisogno di un’epica. Se la nostra è Masterchef, penso ce ne meriteremmo un’altra».
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