A. Steffanelli, “Tensione social” - L’opera è esposta nella mostra “MIPS”, Università Cattolica di Milano
In questi giorni si discute molto di ChatGPT, il chatbot sviluppato da OpenAI che mira a rendere l’intelligenza artificiale accessibile a una vasta gamma di utenti. Meno attenzione viene invece riservata a Dall-E2, un nuovo sistema di AI che può generare dal nulla immagini di tipo fotografico o artistico, in risposta alle richieste degli utenti. Il ricorso a tecnologie come Dall-E2 presenta questioni etiche di pari importanza a quelle sollevate da ChatGPT. La creazione di immagini da parte dell’AI, infatti, potrebbe perpetuare stereotipi e discriminazioni basati su fattori come razza, genere e orientamento sessuale. Allo stesso tempo, l’uso improprio di tali immagini potrebbe portare a manipolazioni che alterano la comprensione dei fatti da parte dei potenziali spettatori. Come se non bastasse, nel caso in cui uno di tali eventi si dovesse effettivamente verificare sarebbe piuttosto difficile risalire alla responsabilità precisa. È il cosiddetto “ many hands problem” su cui riflette la comunità scientifica. Il Novecento ci ha lasciato in eredità la concezione indiziale delle immagini che sottolinea l’oggettività delle immagini fotografiche. In effetti, la fotografia aveva suscitato stupore nei primi osservatori per la capacità di catturare immagini del mondo con una precisione superiore alla vista umana. Louis Daguerre aveva annunciato la sua scoperta come «una retina artificiale a disposizione dei medici». Da tale presupposto Jean Marie Charcot aveva creato un reparto fotografico all’Ospedale Salpêtrière, fotografando le pazienti affette da isteria. Il successo nel trattamento della malattia aveva confermato la convinzione dell’oggettività delle immagini fotografiche. Di recente, l’avvento del digitale e del deep fake - tecnologia che usa l’AI per manipolare o sostituire audio e video esistenti con elementi artificiali, creando immagini o video falsi ma realistici - ha messo in dubbio tale oggettività, nonostante la nostra inclinazione a credere a ciò che vediamo. Non è, dunque, senza motivo se si torna a discutere della rilevanza del tema. Tuttavia, esso rappresenta solo un aspetto delle sfide che una filosofia dell’immagine deve affrontare. Esiste un altro elemento cruciale che proprio l’insistenza sull’oggettività rischia di far passare in secondo piano: il ruolo che le immagini assolvono nella grammatica della vita interiore e, dunque, del nesso tra immagini e libertà. Qualsiasi cosa sia rappresentata, da un animale nella foresta alla pescivendola di New Haven su cui rifletteva Benjamin, nel vederla acquisiamo informazioni che ci permettono di accrescere la nostra conoscenza. Alcuni studiosi hanno rilevato che, oltre questa consueta modalità, ve ne sia un’altra per certi versi anarchica, nel senso che si sottrae al controllo del soggetto. Barthes aveva parlato del “punctum”, un pungolo vero e proprio, che colpisce lo spettatore esercitando una resistenza rispetto alla sua facoltà di introiezione percettiva. Il “punctum” ci coinvolge in una relazione con un elemento che resiste alla nostra tendenza a ordinare il mondo in base alle nostre aspettative. Per tali ragioni, la fotografia è un medium che può andare oltre la mera rappresentazione visiva e diventare uno strumento per esplorare la propria interiorità. Le immagini possono sorprenderci e presiedere una dinamica che scardina la perfetta corrispondenza tra percezione e oggetto rappresentato. La fotografia diventa così strumento di ispirazione, autoriflessione e comprensione di noi stessi. La possibilità di essere sorpresi da un’immagine poggia sulla sua indipendenza dai nostri desideri. È il livello su cui intervengono le tecnologie legate all’AI, capovolgendo l’indipendenza in dipendenza. Per questo, la possibilità di creare immagini basate sui nostri desideri o sugli algoritmi di un computer potrebbe influire sulla nostra percezione e sulla nostra comprensione del mondo. La questione cruciale è quindi come proteggere libertà e autonomia delle immagini, in modo che continuino a sfidare i nostri pregiudizi e a fornirci nuove prospettive. Questo richiede una rinnovata consapevolezza riguardo alla tecnologia e alla sua capacità di influire sulla nostra percezione, e la necessità di un uso responsabile delle immagini prodotte dall’AI. Tale presa di coscienza è oggi limitata a settori della ricerca, ma risulta pressoché assente nel largo pubblico presso il quale il ricorso alle nuove tecnologie è accompagnato da un’indifferenziata plausibilità e dalla rarefazione dello spirito critico. È dunque necessaria un’etica dell’immagine che, nel farsi carico degli interrogativi posti dall’avvento delle nuove tecnologie, sappia proporre sia approcci teorici che indicazioni pratiche tali da essere intese da tutti. Perché non ci siano equivoci: sulle immagini si gioca una partita più ampia che riguarda l’umano stesso. Trovano conferma le parole di Nietzsche, per il quale «imparare a vedere» è la prima propedeutica alla spiritualità.