«La sapienza del cuore» (pagine 760, euro 28) è il titolo del volume con cui Einaudi festeggia i settantant’anni di Enzo Bianchi (nella foto), priore della Comunità monastica di Bose. Nel libro – che verrà presentato il 2 maggio alle 18 al Teatro Regio di Torino con Massimo Cacciari e padre Federico Lombardi – sono riuniti oltre 130 interventi di personalità che vanno dal cardinale Gianfranco Ravasi al danzatore Roberto Bolle, dagli scrittori Claudio Magris, Guido Ceronetti e Predrag Matvejevic ai filosofi Salvatore Natoli, Virgilio Melchiorre e Christos Yannaras. Da segnalare la presenza del banchiere Giovanni Bazoli, degli imprenditori Guido Martinetti e Federico Grom, di giornalisti come Ferruccio de Bortoli, Ezio Mauro, Michele Serra, Barbara Spinelli e Roberto Righetto, di teologi come Christoph Theobald, Maria Ignazia Angelini, François Boespflug, Bruno Forte e Mariano Crociata. Per l’occasione Arvo Pärt ha invece composto l’opera «Laudate», che sarà eseguita domani nell’ambito della presentazione torinese.Oltre a essere un grande pensatore e osservatore del nostro tempo, Enzo Bianchi è per me una persona speciale perché lui e mio padre erano amici, legati da un forte affetto e da una stima profonda. È per questo che ogni volta che leggo una sua riflessione mi avvicino al suo pensiero con una grande attenzione. E in questo modo ritengo di aver imparato molto, anche su quegli argomenti che sono il cuore del mio impegno professionale, prendendo sul serio l’invito a rileggere e ripensare, e a non accontentarsi del primo pensiero che ci passa per la testa. Mi riferisco in particolar modo alle questioni sulla pace e sulla guerra, che non potevano non far parte dei temi trattati con profondità da Enzo Bianchi per la loro importanza intrinseca e la grande rilevanza dal punto di vista etico e morale. Come quelle di Erasmo nel suo <+corsivo_bandiera>Lamento della pace<+tondo_bandiera>, le sue osservazioni colpiscono perché la pace appare un obiettivo lontano. La pace è infatti un argomento particolarmente difficile da praticare o da studiare. Dal punto di vista storico, nonostante siano ben pochi gli individui o le civiltà che hanno affermato apertamente di desiderare la guerra, quest’ultima è un fenomeno ricorrente in ogni epoca storica e in ogni regione del mondo. Anche le democrazie, nonostante la loro propensione a non combattersi tra loro e la loro condanna di atteggiamenti bellicosi, non hanno combattuto meno degli altri tipi di regime e quando combattono, sono capaci di farlo «con rabbia». Del resto, mentre per mantenere la pace è necessario l’accordo di tutti, perché scoppi un conflitto è sufficiente che uno solo decida di dichiarare guerra, trascinando gli altri in una spirale di violenza e di vendetta. Dal punto di vista scientifico, è vero quanto afferma Geoffrey Blainey sul fatto che: «Per ogni mille pagine pubblicate sulle cause delle guerre, c’è meno di una pagina che tratti esplicitamente le cause della pace».
Enzo Bianchi rifiuta le impostazioni semplicistiche che attribuiscono la responsabilità di eventi terribili e complessi a un singolo uomo o una singola nazione. Non si può quindi identificare il nemico con il male, e, di conseguenza, «noi» con il bene, in quanto in una guerra è estremamente difficile che vi siano combattenti innocenti. In un’era di distinzioni tra bianco e nero, ci ricorda come molte questioni siano in realtà poste su una scala di grigi e che nessuna civiltà è immune dall’errore. Perciò quando ci si interroga sulle motivazioni che spingono alcuni uomini a un particolare episodio di violenza, sarebbe necessario investigare sulla tendenza di ogni uomo a utilizzarla in certe circostanze. Come ha scritto all’indomani degli attacchi terroristici sulle torri gemelle: «Il cuore dell’uomo è un abisso profondo, da cui sgorga il bene ma anche, e più sovente, il male» («Avvenire», 14 settembre 2001). Ed è da questa constatazione che deve partire ogni ragionamento sulla violenza umana. «È giunta l’ora di svegliarsi dal sonno, dall’illusione che il male sia chiaramente identificabile solo in qualcuno o qualcosa che sta fuori di noi» («La Stampa», 15 settembre 2001). Tanto meno quindi si può ricorrere a spiegazioni di livello soprannaturale, di carattere divino ma nemmeno demoniaco. La guerra è combattuta tra uomini, e ciò che la violenza offusca è l’uomo e la sua umanità, senza bisogno di ricorrere a spiegazioni sovrumane. «I cristiani [...] dovrebbero aver imparato, dopo i genocidi del secolo scorso – da quello del popolo armeno, alla shoah, al genocidio dei tutsi – a non chiedere dov’è a Dio, ma a chiederlo all’uomo! Uomo, umanità, dove sei?» («Avvenire», 14 settembre 2001).
La tentazione di ritenere che Dio sia dalla nostra parte il Gott mit uns dell’Ordine Teutonico e poi dell’esercito tedesco nelle guerre mondiali – e che noi quindi combattiamo per la sua e non per la nostra volontà – il Deus vult della Prima crociata – implica una visione distorta sia dell’umanità che della divinità, con quest’ultima ridotta a idolo «contro alcuni uomini e non per tutti gli uomini» (inedito, 25 gennaio 2002). Nascondere la responsabilità delle nostre scelte politiche dietro una presunta conformità con la volontà divina è grave, ma diventa gravissimo se diventa una giustificazione per l’uso della forza. Anche perché la demonizzazione dell’avversario, e la conseguente nostra angelizzazione, non può che portare alla sua deumanizzazione, e di conseguenza anche alla nostra, spingendo la guerra fino alle amare conseguenze dello sterminio. Come si può infatti negoziare un compromesso con chi incarna il diavolo? Una volta che una guerra è iniziata per la presunta volontà di Dio, come può manifestarsi il desiderio che le ostilità abbiano fine? Il tentativo di trascinare Dio nelle vicende degli uomini è una perversione del messaggio cristiano, che è invece basato sul libero arbitrio. Ciascuno di noi ha di fronte la propria coscienza, e non può sostituirla con precetti che vengono da fuori abdicando all’arduo compito di compiere difficili scelte morali. «Dio non castiga mai, né può castigare gli uomini mentre sono in vita: significherebbe violentarli nella loro libertà e gli uomini castigati sarebbero costretti ad agire secondo il volere di Dio» («La Stampa», 28 settembre 2001). Questo significa che in assenza di una chiara linea di demarcazione tra bene e male, e in assenza di una guida esterna che possa consentire di abdicare ai nostri doveri di scelta, è necessario confrontarsi con la continua fatica di distinguere tra meglio e peggio. Questo è ancora più difficile nell’arena politica, nella quale le conseguenze delle nostre scelte non hanno ripercussioni solo su noi stessi, ma anche sugli altri. E non ci si deve illudere sul fatto che sia possibile una politica che riesce sempre ad accontentare tutti.
La politica è il regno delle scelte, e se la politica rinuncia a scegliere allora diventa inconcludente. Ciascuna opzione ha i suoi costi se non le sue vittime e in tante circostanze non è facile rassegnarsi al male minore. A livello internazionale, le conseguenze possono comportare la vita di intere popolazioni – messe a repentaglio se si interviene contro un dittatore, o lasciate alla sua mercé in caso di astensione dall’intervento – portando a una dimensione epica il profilo morale di queste scelte.Enzo Bianchi è un teologo, e non un teorico politico, e perciò consegna una risposta a questi dilemmi di stampo religioso. Bisogna recuperare lo spirito originario – antico e rivoluzionario allo stesso tempo – del Vangelo. Il carattere innovativo del cristianesimo rispetto alle religioni che lo avevano preceduto consiste nel fatto che il suo messaggio è rivolto non solo ai carnefici, ma anche alle vittime. E a queste prescrive un comandamento difficilissimo da realizzare: amare il proprio nemico («La Stampa», 1° novembre 2002).
Nel Sermone della Montagna e nella Passione, Gesù insegna a porgere l’altra guancia a chi ci schiaffeggia, a baciare il nostro traditore, a perdonare i nostri torturatori. Enzo Bianchi attribuisce all’intuito teologico di Giovanni Paolo II l’aver adattato il comandamento alla politica internazionale, ricordando come sia vero che non ci può essere pace senza giustizia, ma come anche non ci possa essere giustizia senza perdono (inedito, 25 gennaio 2002). Se non ci può essere una risposta sull’uso della forza valida in ogni circostanza e se è quindi necessario confrontarsi ogni volta con i pro e i contro delle decisioni sulla guerra e sulla pace, almeno sembra che una motivazione debba essere eliminata tra le giustificazioni della violenza: quella della vendetta.