La terza guerra mondiale è in corso da tempo e, per chi non se ne fosse accorto, il campo di battaglia è anche il rettangolo dello sport più universale, il calcio. Un pallone gonfiato dal gas delle steppe, dai petroldollari dei deserti mediorientali e lanciato in aria nell’etere dalle «antenne lesse delle varie tv» (canta Lucio Dalla). Una fenomenologia che ha ben chiara Marco Bellinazzo, giornalista del Sole24 Ore, esperto di calcio e finanza, che ha appena pubblicato un saggio illuminante in materia,
Goal Economy (Baldini&Castoldi) – da oggi in libreria –. L’asse sui cui si gioca gran parte delle “guerre stellari” del pallone, ruota tra la Russia e il Qatar. «I primi a sfidare le leggi dell’economia mediante il calcio, sono stati i russi, con Roman Abramovich che nel 2003 ha acquistato il Chelsea. Di fatto il magnate russo ha aperto alla colonizzazione degli imprenditori stranieri nella Premier», attacca Bellinazzo. Oggi, infatti, oltre la metà dei club della Premier sono proprietà di stranieri e questi hanno trasformato il campionato inglese in un vero e proprio Mondiale delle due “f”: football e financial. «Merito dei russi che convivono commercialmente con gli americani (proprietari delle storiche “tre grandi”: Manchester United, Liverpool e Arsenal) i quali hanno esportato nel Regno Unito i metodi di gestione delle franchigie Usa di football, baseball e basket», spiega Bellinazzo. Di fatto dunque, la Premier si muove con le stesse dinamiche di acquisizione e controllo che esercita l’Nba sul mercato globale. E i numeri lo confermano. «La Premier è la vera “Iconic british business” con ricavi di 3 miliardi di sterline a stagione. Nella classifica dei 30 club più ricchi d’Europa, 14 sono inglesi». All’interno di queste roccheforti, tante sono le partecipate battenti bandiera russa. Ma è nell’Arsenal che affiorano segnali della “guerra fredda” in atto: quella tra i soci di maggioranza americani (facenti capo al gruppo di Stan Kroenke) e il socio di minoranza, l’uzbecko, di cittadinanza russa, Alysher Usmanov. Di recente, Usmanov è intervenuto anche per adempiere agli emolumenti del ct della Russia, Fabio Capello, il cui destino è un “fatto di Stato”».La palla passa sempre al presidente Vladimir Putin che, agli oligarchi che siedono alla sua tavola rotonda ha “donato” gasdotti e vecchie raffinerie dell’ex Urss. Così, l’economia russa ha fatto tanti gol nelle porte di mezza Europa. «La Gazprom che controlla il 70% della produzione russa di gas (vendite per oltre 150 miliardi di dollari) è padrona dello Zenit San Pietroburgo, ma anche lo sponsor leader della Champions League. Un marchio che, nonostante la crisi degli ultimi mesi (prezzo del petrolio ridotto del 10%) certifica il gigantismo del prossimo Mondiale di Russia 2018 per il quale il governo ha varato 12 stadi e stanziato un budget che prima della svalutazione del rublo ammontava a 20 miliardi di dollari, ora è sceso a 12».Un Mondiale consegnato a Mosca da Sepp Blatter che, il 2 dicembre del 2010, a Zurigo stabilì uno dei suoi tanti record: l’assegnazione di due edizioni dei Mondiali nello stesso giorno, Russia 2018 e Qatar 2022. «Da lì è cominciata la “terza guerra mondiale” del pallone, che ora ha scatenato la megainchiesta di Cia e Fbi e portato alle dimissioni di Blatter appena rieletto a capo della Fifa – dice Bellinazzo –. Una vendetta degli Usa che allora ritirarono la candidatura per i Mondiali del 2018, ottenendo garanzie per l’assegnazione di quelli del 2022. Promessa puntualmente non mantenuta da Blatter che, facendo leva sui suoi 100 seguaci di altrettante federazioni - in rappresentanza di Asia e Africa -, li ha convinti a dirottare i voti sul Qatar. Pare, inoltre, che Blatter avesse già un mezzo accordo per il Mondiale del 2026 con Cina e India e questo per gli americani è stata la scintilla che ha fatto esplodere la bomba».Un pallone che somiglia sempre più a un ordigno, ma che gli sceicchi del Qatar sanno disinnescare e maneggiare come pochi. «Basta vedere cosa è stato capace di fare a Parigi il Qatar Investment Authority, contro il quale nulla può neppure la concorrenza del pur munifico russo Dimitri Rybolovlev, patron del Monaco». I ricavi del Paris Saint Germain da quando, nel 2011, è arrivata la corte del figlio dello sceicco Al- Thani, il 35enne Tamin, sono cresciuti da 100 a 474 milioni di euro. «La Ligue 1 è ormai in fase di sorpasso sulla nostra povera Serie A che è stata letteralmente salvata dai fondi qatarioti. Come? Il Paris Saint Germain ha investito sui 300-400 milioni di euro tra Napoli (presi Lavezzi e Cavani), Milan (Ibrahimovic e Thiago Silva), Roma (Marquinhos), Palermo (Sirigu e Pastore) Inter (Thiago Motta), Pescara (Verratti)».Il Qatar fa shopping in Serie A, ma non acquista i nostri club. «Il motivo è semplice, prima non gliel’hanno permesso, ora – come tutti – si rendono conto che non è più un affare, perché la Serie A vive di ricordi di quando dieci anni fa era ancora il campionato più bello e ricco del mondo (l’Inter fatturava quanto il Barcellona, adesso i nerazzurri sono sotto i 200 milioni di euro, mentre i catalani sfiorano i 500 milioni, ndr). Il Qatar, dopo la rivoluzione delle pay-per view e degli investimenti derivanti dai diritti tv, sta cavalcando la terza “rivoluzione industriale”: i fondi di investimento nel calcio».Una rivoluzione che sovverte le leggi dell’economia. I fondi qatarioti non hanno risentito neppure del provvedimento Fifa che vieta (dal 1° maggio 2015) i Tpo (third party ownership), alias l’acquisto di quote di cartellini di calciatori. «In attesa che Bruxelles si pronunci per una possibile riabilitazione dei Tpo, l’ostacolo è stato aggirato dagli sceicchi del Qatar – ma anche dal saudita Mansour, proprietario del Manchester City – con i Tpi (third party investments): il fondo non possiede più percentuali sui cartellini, ma presta denaro alle società o entra nell’acquisto di uno o più club».Il Qatar Sport Investments nel 2010 è entrato nel Barcellona, convincendo il club catalano a stampare, per la prima volta nella sua storia, lo sponsor sulla maglia. «Sponsor che è – conclude Bellinazzo – la compagnia aerea “Qatar Airways”, la quale negli ultimi cinque anni ha elargito al Barça 150 milioni. Una cifra record che fa capire che per gli sceicchi di Doha nulla è impossibile, neppure organizzare un Mondiale nel deserto».