Un'immagine dell'assalto a Capitol Hill, a Washington - Jim Lo Scalzo / Ansa
In questi giorni il mondo intero si sta appassionando alla proposta di impeachment contro il presidente americano uscente, sostenuta con forza dalla speaker democratica Nancy Pelosi con parole di giustificata durezza. E mentre la vicenda, politica e giudiziaria, si va infiammando negli spazi di dibattito e di confronto, i disordini verificatisi il 6 gennaio scorso presso il Campidoglio statunitense potrebbero già essere divenuti una questione “da museo”. Un breve trafiletto del New York Times, pubblicato appena due giorni dopo l’insurrezione scatenata dalle parole di Donald Trump nel giorno della proclamazione del presidente neo-eletto Joe Biden, riporta la notizia della raccolta intrapresa dal National Museum of American History (parte del prestigioso Smithsonian) di oggetti, simboli e testimonianze della scioccante manifestazione che ha fatto incrinare le fondamenta della democrazia americana. Il direttore del museo, Anthea M. Hartig, ha dichiarato che le elezioni presidenziali appena concluse hanno offerto “una rilevante dimostrazione della sofferenza e delle opportunità implicite nel processo di riconoscimento del passato e di elaborazione del futuro di un popolo” (fonte: NYT).
Il riferimento alla complessa questione dell’abbattimento delle statue dei generali confederati legato alla diffusione del fenomeno Black Lives Matter è del tutto evidente, come pure alla polemica scatenata dalla decisione – quanto mai sofferta – assunta da tre grandi istituzioni internazionali come il Museum of Fine Arts di Houston, la National Gallery of Art di Washington e la Tate Modern di rinviare di alcuni anni la mostra antologica del grande pittore statunitense Philip Guston, le cui rappresentazioni del KKK, satiriche quanto terribilmente accusatorie nei riguardi di un ipocrita perbenismo middle class, sono state ritenute troppo rischiose in un momento di fortissima tensione sociale.
Ma la tempestiva azione di raccolta dello Smithsonian solleva altre questioni importanti, che toccano inevitabilmente la lettura del presente, la sua valutazione e la sua traduzione in termini di significato e di trasmissione verso le generazioni future. In questo processo complesso e sicuramente controverso, il museo ha assunto ormai un ruolo diverso, molto più sensibile e reattivo rispetto alle trasformazioni dell’attualità e decisamente più incisivo nell’articolazione del discorso pubblico.
Proprio il caso Black Lives Matter ha evidenziato la forza dell’azione politica dei musei statunitensi, la cui presenza sui social network contribuisce ormai in modo significativo a sollecitare la partecipazione dei cittadini rispetto ai grandi temi del nostro tempo (dai diritti umani, alla difesa dell’ambiente, allo sviluppo sostenibile), orientandosi verso una “non neutralità” più volte invocata da realtà associative del calibro della American Alliance of Museums (AAM) e dell’International Council of Museums (ICOM).
Catalogare i miseri, quanto imbarazzanti, resti dell’assalto a Capitol Hill come “pezzi da museo”, può sembrare forse inappropriato e prematuro, ma per certi versi cristallizza con strabiliante rapidità un giudizio storico che non ammette appelli. È come se il museo si fosse mosso ancor prima della politica, intercettando la condanna che il mondo libero ha formulato nei confronti degli sgangherati pretoriani di un uomo che non ammette una sonora sconfitta, decretata prima dagli elettori e con sorprendente rapidità dalla storia stessa.
Krzysztof Pomian, autore di uno dei più celebri testi della museologia moderna, ha definito con estrema chiarezza i tratti di un oggetto che entri a far parte di una collezione: la sua fondamentale caratteristica consiste nella sottrazione/negazione della funzione per cui quell’oggetto è stato creato ed è stato utilizzato. Così una pala d’altare accolta in un museo perde la sua funzione devozionale; il gioiello un tempo indossato da un faraone egizio sarà esposto in una vetrina e non arricchirà più l’aspetto di un regnante. Le bandiere sudiste e i cartelli infamanti imbracciati dai seguaci del cosiddetto sciamano di Trump Jake Angeli hanno esaurito la loro funzione e utilità, se mai ne hanno avuta una, nel tempo record di poche ore: il loro passaggio a memoria di un passato che non vorremmo più rivivere le porta a buon diritto nella vetrina di un museo che intende offrire ai suoi visitatori un preciso monito rispetto alle regole su cui si fonda la società moderna.
C’è da auspicare che la giustizia e la politica procedano di pari passo stigmatizzando con le opportune misure un’azione che non ha precedenti nella storia delle democrazie moderne. Appare interessante come i musei, che di queste democrazie sono in gran parte espressione e strumento di esercizio della cittadinanza, si stiano sempre più affermando come spazi di dialogo e di elaborazione del pensiero politico, posti come sono nella condizione costante di dover attribuire senso al patrimonio della nostra memoria, interpretando i valori che sostanziano l’identità dei popoli e degli individui.