John fante qualche anno prima della morte avvenuta nel 1983
Siamo un popolo di migranti. E forse poche voci della letteratura hanno espresso un “grido” più disperato, di denuncia, a difesa di tutti gli sradicati della terra, come quello lanciato dall’ancora troppo sommerso John Fante. «Io vengo dall’Abruzzo padre. Da Torcelli Peligna», dice Nick Molise, il protagonista del suo racconto Il dio di mio padre a padre Ramponi (della comunità cattolica di Denver) che doveva convincerlo ad andare a messa la domenica. Torcelli, è Toricella Peligna, borgo montano dell’Aventino-Medio Sangro da dove era partito suo papà, Nicola Fante, muratore maritato a Mary Campoluongo, dai quali l’8 aprile del 1909 nacque John, una delle comete più luminose della narrativa americana. L’irregolarissimo Charles Bukowski, dopo aver letto Ask the Dust - Chiedi alla polvere, disse: «Fante avrebbe esercitato un’influenza duratura su di me... Scrive con le viscere e per le viscere, con il cuore e per il cuore». Una cometa spesso incompresa, recordman di rifiuti editoriali e di vuoti a perdere, ma che ha lasciato dietro di sé una scia densa. Una storia da romanzo quella dello scrittore italoamericano, ancor prima del debutto letterario, avvenuto nel 1933 con la pubblicazione dei primi due racconti sulle prestigiose riviste “The American Mercury” e “The American Phoenix”. Una vicenda umana attualissima - specie in tempi di drammatici sbarchi quotidiani sulle nostre coste - in cui sta dentro tutta la speranza e il dolore dei migranti italiani. L’odio del razzismo e la volontà di inclusione di quella comunità di little italy, misera, salpata con pochi stracci riposti nella valigia di cartone e che una volta sbarcata a Ellis Island andava alla ricerca di sogni di gloria nel Nuovomondo. «Si va all’America ».
Una vicenda esistenziale che per assaporarla a pieno occorre ripercorrere al contrario quel viaggio nelle viscere dell’Abruzzo, poco prima di quel settembre dannunziano in cui «è tempo di migrare». Dall’«Adriatico selvaggio », dalla Francavilla alcionescada cui partì la famiglia di Dino Paul Crocetti, in arte Dean Martin, si sale fino a Ripa Teatina, il borgo dei pugili: il paese di Rocky Mattioli (campione del mondo dei superwelter, emigrato a 6 anni in Australia) ma soprattutto dei Marchegiano, la gens del leggendario Rocky Marciano, il pugile che mandava al tappeto tutti (unico imbattuto nella storia dei pesi massimi) e che fece girare la testa persino alla divina Marilyn Monroe. Una zingarata tra amici, che non hanno mai sentito parlare di Fante e che mi accompagnano nella “casa del padre” di Arturo Bandini. L’alter ego preferito dallo scrittore, le cui radici peligne affondano in quella Torricella che «è molto simile alla Fontamara di Ignazio Silone», come scrive Eduardo Margaretto nel magnifico ed esaustivo saggio Non chiamarmi bastardo. Io sono John Fante (Rubbettino; pagine 260; euro 18,00). Un viaggio in cui, paese dopo paese, attraversando boschi e non sempre sacri spechi, perdendosi per strade e mulattiere (l«la postina di Fara San Martino ci mise sulla retta via», ricordano gli amici di Ripa) si comprende la fatica degli uomini e delle donne costrette a lasciare la fame, spezzata da «bread and onion » (pane e cipolla) che qui dimorava da padrona tra la fine dell’800 e gli inizi del ’900. «È attraverso la figura delle nonne – annota Margaretto – che John Fante riesce a tracciare con maggiore intensità il brutale trauma dello sradicamento degli emigranti. La condizione di povere anziane e donne provoca loro una terribile perdita d’identità».
Non c’è romanzo, dall’esordio di La strada per Los Angeles (1933) passando per Sogni di Bunker Hill (1982), fino al conclusivo L’anno terribile (uscito postumo alla morte avvenuta nel 1983), in cui Fante non si rifaccia al «lessico familiare» di Torricella. Arrivati in paese ci accoglie un vecchio seduto (ha la faccia dello zio Mingo, l’antenato brigante) su una sedia impagliata, a fumare davanti la porta di casa piena di parenti che fa pensare a quell’interno di famiglia Fante con «Zio Clito, barbiere, Zio Pasquale, scalpellino, Zio Tony, camionista, Zio Attilio, operaio. Mio padre, muratore. Chiusi nel piccolo salone zeppo di ornamenti, bevevano vino e fumavano sigari». La nostra confraternita del vino si ritrova con il giovane sindaco appena eletto, Carmine Ficca, al ristorante da Ciro ai piedi della pineta dove ogni anno il mondo dell’arte varia (i fantiani della prima ora: Vinicio Capossela, Sandro Veronesi, Frank Spotnitz...) rende omaggio al genius loci. A dire il vero il geniale creatore di Bandini qui non è mai tornato davvero neppure la primavera di sessant’anni fa. Sbarcato nel 1957 a Napoli, mister Johnnie fece il nostro stesso percorso, però il suo biografo principe, Stephen Cooper, racconta che «Fante parcheggiò nella piazza del paese, ma immediatamente obbligò l’autista a fare marcia indietro, preso dal panico di calpestare gli stessi posti in cui aveva camminato il padre». Quel padre che, come il nonno, tante volte l’aveva affabulato parlandogli della terra promessa d’Abruzzo. Ma quel paese dove sullo sfondo svetta la Majella non corrispondeva affatto alla realtà che apparve davanti ai suoi occhi adulti. Una cicatrice che si riapriva. Specie al ricordo della pubblica ottusità di un’America, anni ’20-’30 del secolo scorso, razzista che etichettava i figli degli italiani come «wop, dago, guinea, greaseball, spaguetti, macarroni». Gioco al massacro, quello del razzismo, dal quale non rimase immune neppure Fante che in Chiedi alla polvere apostrofa la cameriera messicana, salvo poi riparare all’offesa: «Gli Smith, Parker e Jones mi insultavano come io ho insultato te. Mi hanno umiliato al punto di farmi sentire diverso». Per sfuggire all’umiliante diversità, capì in fretta che il riscatto sociale passava soltanto dalle scialuppe di salvataggio della cultura e dello sport, il baseball e il football americano giocato al college e all’Università del Sacro Cuore di Boulder (città del Colorado dove si erano trasferiti i Fante). Il chierichetto del suo Dago Red (racconto del 1940) aveva avuto accesso alla grande scuola gesuita («tra le pareti di quelle aule comprese ben presto ciò che significava essere un italoamericano cattolico nel Paese delle opportunità ») coltivando quell’«intellettualismo solitario» che lo condusse sul sentiero delle letture forti. A partire dagli imprescindibili Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, per poi scoprire i classici e inebriarsi con lo Zarathustra di Nietzsche, gli enciclopedisti e Schopenhauer. Fino a provare l’estasi e il tormento nella grande letteratura russa, abbeverandosi a tutte le fonti di Dostoevskij che «mi parlava dell’uomo e del mondo, d’amore e di saggezza di delitto e di castigo, e capii che non sarei mai più stato lo stesso». Da quel momento sarebbe diventato il talento capace di narrare L’odissea di uno wop. Poi avrebbe tentato la fortuna a Hollywood, dimorando agli inizi a Wilmington (la zona portuale di Los Angeles) nella casa degli zii materni, i Campolungo e cercando di sbarcare il lunario come sceneggiatore, rimanendo però sempre al «margine» dell’industria cinematografica. «Perché prima di tutto per lui veniva la letteratura. La possibilità di raccontare le storie della sua gente», sottolinea Giovanna Di Lello, figlia anche lei di abruzzesi ma nata a Hamilton (Canada) autrice del docufilmJohn Fante profilo di scrittore (Fazi). Storie che i giovani del paese per anni, settimanalmente, hanno letto e commentato al “circolo fantiano” del mentore locale Pietro Ottobrini. Oggi tutte le opere del “figlio” più illustre di Torricella si trovano nella Mediateca dove si entra facendo lo slalom sulle lastre di marmo su cui sono incisi i titoli di tutti i suoi romanzi (all’appello manca l’inedito The little brown brothers). Un luogo per fedelissimi. Del resto Bandini, come padre Alberto in Bravo, Burro coltivano l’unica certezza del loro autore: «La fede muove le montagne». Specie quelle intorno alla Torricella dei Fante.