«La mancanza di mutuo soccorso tra gli uomini», gli odi nazionalistici «portati al parossismo» (Benedetto XV, 1914) causarono la cosiddetta Grande Guerra, una «inutile strage» (1917). Lo statunitense David Wark Griffith, quello che stava diventando il più grande e innovatore regista del cinema degli anni Dieci, ancora oggi considerato il primo autentico maestro della Settima Arte, studiato in tutto il mondo, forse non conosceva nel dettaglio l’impegno pacifista di Benedetto XV (le diverse lettere e tentativi diplomatici indirizzati ai governi belligeranti). Eppure ebbe il coraggio di produrre e realizzare, in pieno conflitto mondiale, Intolerance (uscito negli Stati Uniti il 5 settembre 1916, ovviamente boicottato dalla distribuzione in Europa: avrebbe indotto alla diserzione), un kolossal di 183’ che parlava dell’intolleranza attraverso venti secoli, da Cristo al Novecento.
E la chiusa del film mostra un’immagine simbolica “aggiunta”, al racconto: un campo di battaglia contemporaneo in cui i soldati depongono le armi e si abbracciano; il suolo devastato dalle esplosioni e ricolmo di caduti diventa, attraverso una dissolvenza incrociata, un prato fiorito, in cui sorridenti e felici famiglie, con bambini che giocano, si rispettano (immagine “citata” da Terrence Malick in Tree of life).
Intolerance proponeva, per la prima volta nel cinema, quattro storie ambientate in epoche diverse: “la caduta di Babilonia” (539 a.C.); “la passione di Cristo”; “la notte di San Bartolomeo” (1572); una storia contemporanea, The mother end the law (“La madre e la legge”, in realtà già ultimato come film autonomo nel 1915). Le prime tre erano casi di intolleranza religiosa, la quarta una vicenda di “violenza” della legge, non tollerante, nei riguardi di un innocente.
L’innovazione stilistica, per lo spettatore del tempo (largamente analfabeta), era doppia: doveva “saltare” attraverso i secoli, seguire degli avvenimenti storici raramente studiati a scuola (per chi vi era andato), ricostruiti con una verosimiglianza e un rigore scientifico impressionante (tranne piccole imprecisioni e qualche libertà narrativa: per esempio, nel breve quadro “La casa di Cana in Galilea”, Griffith mostra Maria con in braccio il piccolo Gesù, scambiando Cana per Nazareth; oppure Gesù, accogliendo l’adultera, la interroga con tono icastico «Donna, dove sono quei codardi accusatori?»), e trovare un legame di senso, appunto l’intolleranza. Non solo.
Griffith, man mano che il film procede verso l’explicit, sospende il racconto del singolo episodio sul crescendo della klimax, passando ad un altro episodio, perfezionando così la suspense. Infine, lega in forma analogica gli eventi del passato a quelli della contemporaneità, chiamando lo spettatore a “scovare” la similitudine. Un esempio per tutti: mentre l’innocente marito (accusato ingiustamente dell’omicidio del gangster di quartiere) è avviato al patibolo (La madre e la legge), vediamo Cristo condotto sulla via del Calvario (episodio della “Passione di Cristo”).
Il fondere insieme storie diverse introdusse nel cinema il, presto noto, montaggio in parallelo: il “teologo” regista danese Carl Theodor Dreyer realizzerà, qualche anno dopo (proprio su ispirazione di Intolerance), Pagine del libro di satana (1921), quattro storie ambientate in epoche diverse, in cui il divaolo si manifestava. Altra novità stilistica, sovente dimenticata (oltre a quelle notissime di regia, quali riprese aeree, antesignane del dolly, con palloni aerostatici; carrelli chiamati a “superare” quelli di Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone; panoramiche; dettagli del volto, flashback senza dissolvenza, ecc.), è la “nota a piè pagina”, che si aggiungeva alle didascalie in uso (dichiarative, descrittive, riassuntive). Quando un concetto o un fatto storico era ritenuto non conosciuto dal largo pubblico di allora (e forse di oggi), appariva la nota (l’arguto Chaplin “copierà” l’idea in A woman of Paris, 1923).
Per esempio, leggiamo, «Nota: - Fariseo, partito ebraico di eruditi, la cui reputazione è crollata forse a causa degli ipocriti che ne facevano parte. […]»; «Nota: Ugonotti - fazione protestante dell’epoca»; «Nota - Il diritto babilonese secondo il codice di Hammurabi proteggeva i deboli di fronte ai prepotenti». Intoleranceesibisce notevoli momenti di poesia e d’azione. Il tenero amore tra i due fidanzati ugonotti (poi stroncato dalla cieca invidia e violenza del soldato cattolico, ma “mercenario“, che trafigge la splendida Occhi Bruni); la sofferenza della Piccola Cara, durante il processo del marito, mentre cerca di aiutarlo con dei tenui sorrisi, ad esempio, sono gemme di sincero lirismo. Scene d’azione come l’assalto delle truppe di Ciro sotto/contro le mura di Babilonia, difese strenuamente dai babilonesi, o la rincorsa dell’auto sportiva numero 8, con a bordo il “poliziotto buono”, la Piccola Cara e “la donna senza amici” (è l’amante del boss, ha ormai confessato l’omicidio commesso per gelosia) all’inseguimento del treno, su cui viaggia il procuratore (l’unico che può firmare la grazia), inchiodano alla poltrona anche lo spettatore di oggi.
Quale regista aveva mostrato mai (e per anni Griffith sarà l’unico) operai davanti alla fabbrica (allusione alle proprietà Rockfeller) falciati dalle pallottole della polizia privata, solo perché attuavano il loro diritto di sciopero (massacro realmente accaduto a Ludlow, nel Colorado, il 20 aprile 1914)? Per la sua visione enciclopedica e allo stesso tempo “entomologa” di fatti minimi, per l’estrema cura del dettaglio (dalle spade dei babilonesi alle tuniche ornate di “frange” dei farisei), per l’ibridazione dei generi in un unico megaracconto (dramma storico, dramma psicologico, film d’azione, film religioso, cinema di poesia, ricostruzione documentaria, aspetto saggistico), elegante sinfonia, omaggio al montaggio, “specifico” narrativo del nuovo secolo, Intolerance può esser paragonato ad alcune grandi opere e tecniche diegetiche del primo Novecento.
Dal cubismo di Picasso all’opera di Marcel Proust; dal fotomontaggio sovietico di El Lissitzkij a Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus; dal Manifesto della cinematografia futurista (stesso anno del film) al cinema di Sergej Michajlovic Ejzenštein; dalla dodecafonia all’architettura Bauhaus (ma anche ai «Cantos di Ezra Pound, all’Uomo senza qualità di Robert Musil, a La terza sinfonia di Charles Edward Ives […]», Paolo Cherchi Usai).