Carlo Verdone contempla le sue nuvole - Su concessione di Carlo Verdone
In questo “anno zero”, per l’umanità, si festeggia il centenario della nascita di Alberto Sordi. E il suo unico erede, Carlo Verdone, a novembre (il 17) taglia il traguardo dei “70” (classe 1950). Se vogliamo continuare con le cifre tonde, beh il suo debutto cinematografico è datato 1980, con Un sacco bello. Da allora ha diretto 27 film, e l’ultimo Si vive una volta sola lo stiamo ancora aspettando. In questi giorni, senza la minaccia globale del Covid-19 sarebbe stato nelle sale, e invece siamo qui, un po’ tristi e impauriti, concentrati in altre attese. Rifugiati, ognuno nelle proprie tane-abitazione, a fare i conti con il presente, a ricordare il passato e, con il tanto tempo inerte a disposizione, ad accennare uno sguardo al futuro. Un “gioco”, tra il nostalgico e lo speranzoso, che condividiamo con Carlo Verdone.
In attesa di vederlo quanto prima, nel suo Si vive una volta sola ci sono dei medici che avrebbero dovuto farci sorridere. Ora invece per i dottori sono giorni di lacrime e sangue nelle corsie degli ospedali, ma sono loro che ci ridaranno il sorriso…
Quando abbiamo scritto il film non pensavamo minimamente a quello che sarebbe successo. E arrivo a dire che, se adesso fossimo stati in fase di scrittura, sicuramente saremmo entrati in crisi. I nostri medici, quelli del film, li raccontiamo nel loro privato e poco nella sala operatoria. I miei medici vivono nella storia di un film donando il buonumore al pubblico. Questi che stiamo seguendo nelle cronache quotidiane, medici e infermieri, sono i veri eroi dei nostri giorni. Nel tentativo di salvare le vite degli altri stanno offrendo la loro vita...
Al di là del titolo, quanto mai attuale, Si vive una volta sola quale messaggio forte intende lanciare?
È un messaggio molto semplice: raccontare, attraverso le relazioni che intercorrono tra i componenti di una équipe chirurgica, l’amicizia e l’assoluta umanità di persone che, pur essendo ottime nel loro lavoro ospedaliero, sono disastrose e piene di problemi nella vita privata. I temi portanti sono solitudine, fragilità e, ovviamente, la comicità.
Ormai da giorni si parla di “Battaglia di Milano”, di “medici in trincea”, di “uomini, donne e preti caduti” in questa «guerra». Suo padre, Mario Verdone, che è stato sottufficiale dell’esercito, e dopo il ’43, partigiano, che cosa vi raccontava della guerra?
Me l’ha raccontato come un periodo drammatico ovviamente. Ma ci teneva a sottolineare che nonostante la miseria, la povertà e l’incertezza, ci fosse una grandissima dignità fra le persone. Dignità che non ritrovava più nei nostri giorni e la cosa lo faceva star male. Quella dignità di un tempo, per lui significava trasmetterci il messaggio che nell’emergenza le persone riescono, spesso, a dare il meglio di sé. E lo stiamo vedendo in questo periodo, in cui medici, volontari e persone di buo- na volontà stanno lavorando senza sosta contribuendo con il loro aiuto a salvare più vite possibili. Stiamo scoprendo e osservando il lato migliore degli italiani...
Tanti dicono che finito quest’incubo «nulla sarà più lo stesso». Cosa ne pensa?
Sicuramente sarà così. Ma ci sarà anche una gran voglia nel tornare all’aggregazione e alla condivisione. Nello stesso tempo questa esperienza porterà a molte riflessioni sul comportamento individuale nella società. Saremo forse più disciplinati e più stimolati ad affrontare problematiche che poi sono la causa di quello che stiamo vivendo... Primo fra tutti: la cura del nostro pianeta, attraverso battaglie e considerazioni su come dobbiamo rimettere a posto il clima, ridurre l’inquinamento e avere più rispetto per la natura. Prima che scoppiasse la pandemia abbiamo osservato i ghiacciai sciogliersi velocemente, il mare ridotto ad un contenitore di plastiche varie, le foreste dell’Amazzonia rase al suolo... Un quarto dell’Australia è andata distrutta dagli incendi, i cieli inquinati da un numero impressionante di velivoli e la pioggia che comincia a scarseggiare. Tutti noi non potremo più voltarci dall’altra parte senza prima riflettere dinanzi a tutte queste emergenze.
Tra le modalità di “sopravvivenza”, nel nostro isolamento forzato c’è la lettura: quale autore sta leggendo o rileggendo?
Seneca è sempre presente nelle mie letture, perché è un vero toccasana per l’anima e porta a riflettere nella giusta direzione. Amo molto i racconti di Cechov, ma ultimamente sto rileggendo dei racconti più contemporanei, quelli di Piero Chiara.
Anche musica e cinema stanno riempiendo i balconi e le serate vuote degli italiani.
Io ascolto quella musica che è in grado di trasmettermi serenità, positività: David Crosby, James Taylor. Ma anche la classica: Mahler e Debussy. Rivedo con piacere il grande cinema in bianco e nero: Orson Welles, Billy Wilder e Frank Capra, mi aiutano molto a passare meglio le mie giornate da “recluso”.
In questa nuova metamorfosi globale potrebbe cambiare anche lo stile della comicità?
In questo momento scrivere per il cinema è una grande impresa. Siamo come smarriti. Ma la commedia ha il compito di raccontare, con grande equilibrio, gli aspetti comici delle persone anche in un momento così drammatico. Ma occorre saper dosare i registri narrativi: serve sapienza e leggerezza, perché ci vuole poco a deragliare nella superficialità. Comunque non credo cambierà molto l’aspetto comico. La commedia racconta i vizi, le debolezze, le megalomanie, le fragilità degli uomini. E i vizi degli uomini sono sempre gli stessi, solo declinati nel periodo in cui vivono.
Giusto ironizzare in questi giorni o pensa che, dai social alla tv, ci sia un eccesso in tal senso?
Spesso si eccede nell’ironia. Ma prendiamola anche come una fase delle nostra esistenza in cui cerchiamo di “staccare” da un diluvio di bollettini di guerra e previsioni apocalittiche. Tutto scorre, nulla permane…
L’immagine televisiva o la storia che l’ha toccata di più in questi giorni...
L’immagine a notte fonda di un’operatrice sanitaria crollata dalla stanchezza, stava lì con la testa reclinata sulla tastiera di un computer. Quella foto ci dice tutto. È l’istantanea di una combattente tra tanti combattenti, una creatura stremata da un nemico feroce quanto invisibile.
La riscoperta più importante che ha fatto in questa assurda e forzata “era domestica”?
L’aver catalogato e messo in ordine le mie fotografie sulle nuvole. Ho capito che sono veramente belle... Il puntare la macchina fotografica in cielo lo vivo come una “preghiera laica”. Sono tante e alcune di queste immagini le vedrete presto in una mostra. Mi hanno incoraggiato Elisabetta Sgarbi e Paolo Mereghetti che sono gli unici ad averle viste finora. Sapevano di questa mia passione e allora gliele ho inviate per un parere.
La fotografia come “preghiera laica”, ma da credente le capita, specie ora, di pregare Dio?
La preghiera è l’unica vera consolazione che abbiamo. Per chi crede, dopo aver pregato con assoluto trasporto e fede, c’è un’indubbia forza che ti aiuta a camminare. Sull’importanza della preghiera ebbi tante conversazioni con il cardinale Ersilio Tonini, fu molto illuminante. Il problema è che spesso preghiamo soltanto quando si presenta qualche ostacolo nella nostra vita, mentre in realtà la preghiera dovrebbe essere costante, specie nei momenti più tranquilli... Saremmo tutti migliori.
Qual è la prima cosa che farà appena potrà tornare ad uscire liberamentei casa?
Voglio programmare un viaggio, da Nord a Sud dell’Italia. È il mio gesto di amore per il mio Paese. L’amo tanto, specie adesso...