Quattro milioni di pellegrini. Tante sono le persone che si recano ogni anno in uno dei luoghi santi cristiani più importanti dello Stivale, la basilica di Sant’Antonio da Padova. Ma è possibile fare un identikit del devoto antoniano? Quale è il suo profilo socio-religioso? Di fronte a tali domande le sorprese svettano in vari numeri: il pellegrino del Santo non è un anziano/a, ma per lo più una persona di mezza età (il 36,6% tra i 45-59 anni) con forti punte di età giovane-adulta (26,4% tra i 30 e i 44) e giovane (14,1% tra i 16-29 anni). Connessa a ciò vi è anche la sorpresa-istruzione: quasi (23,7%) un pellegrino su 4 è laureato, oltre 4 su dieci (41,7%) è diplomato. Un dato suggestivo è il profilo religioso degli interessati: lungi dall’ipotizzare che sia un "parrocchiano fedele", ben il 43,1% degli interpellati non frequenta assiduamente l’eucaristia domenicale. Commenta il sociologo Alessandro Castegnaro: «Il fatto che si possa essere devoti di Antonio senza andare spesso alla messa festiva dice molto del mutamento di statuto che coinvolge la pratica religiosa: da obbligo avvertito come connaturato all’identità religiosa a comportamento "di partecipazione", scelto sulla base di valutazioni personali». Ciò non vuol dire però (e si rinnova la sorpresa) che i pellegrini siano lontani dalle verità di fede del cattolicesimo: ben l’83,4% di loro crede nella resurrezione quando invece (paradosso!) nella popolazione dei praticanti di una diocesi come Rovigo tale percentuale si inabissa al 58,5. Anche sul "perché" si siano affrontate le lunghe ore di code per visitare il Santo le cifre non sono scontate: solo il 14,1% ha motivato con una richiesta di "aiuto"; il 33,8% con la domanda di "protezione"; il 22% in quanto "devoti" e ben il 25,2% per "ringraziare". Insomma, viene smentita l’immagine stereotipata del "pellegrino miracolistico". È quindi decisamente foriera di particolarità inedite la ricerca che Alessandro Castegnaro ha realizzato per conto del
Messaggero di Padova, ora presente nel volume a più mani
Toccare il divino, curato dallo stesso direttore dell’Osservatorio socio-religioso del Triveneto, e dal responsabile del mensile patavino Ugo Sartorio (Emp, pp. 176, euro 16). L’inchiesta, compiuta su 2700 pellegrini tra i 200 mila che sono accorsi all’ultima ostensione (febbraio 2010) delle spoglie mortali del santo originario di Lisbona, si basa su 11 domande inerenti tre questioni: chi erano i pellegrini antoniani, quale rapporto avevano con il Santo, e quali le ragioni della loro visita. L’identikit sociologico dei 200 mila di Padova sembra confermare, secondo Italo De Sandre, uno degli autori, una delle due figure religiose dipinte dalla nota studiosa Danièle Hervieu-Léger nel suo
Il pellegrino e il convertito (Il Mulino): «Una persona che sempre più frequentemente sceglie di avere una propria strada religiosa nella vita, senza una cornice istituzionale rigida». Le previsioni sulla partecipazione all’Ostensione parlavano di una presenza di 100 mila persone. Il numero totale dei pellegrini che passarono davanti all’urna di Sant’Antonio in meno di una settimana doppiò quella rosea aspettativa: 200 mila. Anche la stampa (accorsa in massa: 247 reporter) rimase sorpresa, disarmando le polemiche. In pratica, un’impennata di presenze rispetto all’ultima ostensione del 1981: allora, in 29 giornate, affluirono 650.000 pellegrini (22.500 al giorno). Nel 2010, in 6 giornate (da lunedì 15 a sabato 20 febbraio), si raggiunse quota 200 mila (oltre 33 mila al dì). Castegnaro, nel chiosare i numeri usciti dall’indagine, si sente autorizzato a smontare alcuni cliché sulla religiosità popolare: «I pellegrini non sono molto diversi dalla popolazione per età e condizione occupazionale. Quando una differenza si manifesta, essa va in direzioni che potrebbero essere considerate meno "popolari". I pellegrini sono infatti decisamente più, e non meno istruiti, della popolazione nelle stesse età della vita. I pellegrini sono decisamente più giovani, più attivi professionalmente e più istruiti dei praticanti. E appaiono simili semmai a quei cattolici che vanno a messa in modo saltuario». Cosa suggeriscono al pensiero sulla fede questi dati? Prendendo come riferimento l’idea di "secolarizzazione tre", formata da Charles Taylor nel suo
L’età secolare (Feltrinelli), «non viviamo più in società nelle quali è possibile conservare la sensazione diffusa che la fede in Dio sia essenziale per la vita ordinata di cui (parzialmente) godiamo». Castegnaro annota invece: «La persistenza della religiosità popolare dice che esistono persone per le quali credere riesce ancora facile, o relativamente facile, e che sono disponibili a definire l’oggetto del proprio credere con un certo grado di semplicità, e perché no?, di ingenuità». In tal senso i risultati del sondaggio antoniano sono suffragati da due "mostri sacri" della teologia novecentesca, Joseph Ratzinger e Karl Rahner, i quali, annota Ugo Sartorio, presentavano la religiosità popolare in tutt’altra luce rispetto a un certo «razionalismo teologico postconciliare che l’aveva posta sotto giudizio emettendo una dura condanna». O all’ateismo marxista di Antonio Gramsci che, nei suoi
Quaderni dal carcere, bollava la pietà popolare come mero folclore. In
Introduzione allo spirito della liturgia (San Paolo) Ratzinger afferma: «La pietà popolare è l’humus senza cui la liturgia non può prosperare. Bisogna amarla, se necessario purificarla e guidarla, ma accoglierla sempre con grande rispetto, come la modalità con cui la fede è stata accolta nel cuore dei popoli, persino quando essa appare estranea o estraniante. Essa è il sicuro radicamento interiore della fede; dove essa si prosciuga, il razionalismo e il settarismo hanno facile gioco». L’autore di
Uditori della parola invece ha sostenuto che, «per quanto capace di assumere le forme più imprevedibili e di cadere vittima di qualsiasi depravazione, la fede popolare è più vicina a quella fonte originalissima della religiosità genuina e della fede reale, che è costituita dall’autocomunicazione di Dio».