Il Giardino dei Giusti di Padova / Mattoschi
Sono ebreo. Quando vedo il nuovo clima antisemita che si respira in Francia provo un senso di angoscia. Quando vedo gli attacchi al sionismo e sento che l’unico Stato al mondo che non avrebbe il diritto all’esistenza per una colpa originaria sarebbe quello di Israele, mi viene la pelle d’oca. A nessuno era mai venuto in mente di chiedere la distruzione della Russia quando c’era il comunismo, come ha scritto Alain Finkielkraut, e nemmeno oggi quando si ricordano i diritti negati alle donne in Iran o in Arabia Saudita, o gli stessi crimini di Assad in Siria, si pensa di mettere in forse la legittimità di quegli Stati.
Come si può rispondere a questa degenerazione? Ci sono due filosofie. La prima più emotiva, suggerisce di arroccarsi e di difendere la propria identità, costi quello che costi. Separarsi dagli altri per resistere meglio. La seconda, invece, è quella di diventare parte attiva di una resistenza più ampia per la difesa della dignità umana contro il clima di odio e di intolleranza generato anche in buona fede dai populismi e i nazionalismi che agitano non solo l’Europa. La lezione del passato ci insegna che ogni volta che appaiono sulla scena pubblica movimenti che chiamano alla difesa di una nazione, di una etnia, o anche di una religione contro una supposta contaminazione esterna (vedi oggi il caso di chi agita il pericolo dei migranti per la cultura europea), sono più o meno indirettamente messi in questione gli ebrei come rappresentanti di un cosmopolitismo pericoloso. Quanto è accaduto di questi tempi in Ungheria e in Polonia fa pensare molto. Per fare passare la cultura della chiusura all’altro, per contrapporre la propria nazione a un’idea di Europa aperta e solidale, si usano gli ebrei come capri espiatori, come è accaduto per George Soros e la sua università di Budapest o per gli ambienti liberali polacchi vicini ad Adam Michnik e al suo giornale “Gazeta Wyborcza”.
Lo stesso terrorismo fondamentalista, quando ha colpito le città europee, ha sempre ricercato degli obiettivi ebraici a Parigi come a Bruxelles, per indicare nel sionismo il collante negativo del mondo occidentale. Per questo motivo mi sono battuto in questi anni affinché il mondo ebraico diventasse protagonista di un grande movimento universale per la difesa della dignità di tutti gli esseri umani, consapevole che ogni degenerazione si ripercuote prima o poi sugli ebrei. Ogni nuova forma di odio, come è già avvenuto nel fascismo e nel comunismo, in modo più o meno indiretto ricade sugli ebrei e riaccende in chiave moderna i codici dell’antisemitismo.
Ecco perché ho lanciato un movimento culturale per la Giornata dei Giusti che desse valore non solo alle figure del passato, ma agli uomini migliori del nostro tempo. Ho ritenuto che di fronte ai vecchi e ai nuovi crimini, che sono stati possibili per l’indifferenza e la complicità di chi non volle vedere, fosse necessario non solo ricordare le vittime, ma anche valorizzare il ruolo di chi aveva usato la sua libertà per opporsi al male e così affermare il principio della responsabilità personale. Gli uomini Giusti sono la manifestazione più evidente che non esiste mai un determinismo nella storia, ma che ogni uomo nel suo ambito specifico di esistenza può fare sempre la differenza. Niente è mai scontato perché in ogni luogo, tempo e circostanza il bene è sempre possibile.
Quando ho cominciato questo percorso ho ricevuto non poche obiezioni dallo stesso mondo ebraico e dallo stesso memoriale di Gerusalemme, preoccupati che il concetto di Giusto allargato agli altri genocidi e ai nuovi crimini contro l’umanità potesse incrinare il concetto di unicità della Shoah come il più grande orrore del Novecento. La mia risposta è stata che proprio il carattere abnorme della Shoah, con tutte le categorie nuove e originali di riflessione, poteva diventare un punto di riferimento imprescindibile per individuare i meccanismi che possono innestare nuovi genocidi e per mettere quindi in atto tutte le forme possibili di prevenzione. Indicare il valore degli uomini Giusti e della responsabilità personale in ogni circostanza significava non solo fare degli ebrei delle possibili sentinelle rispetto alle crisi nel mondo, ma tracciare il percorso di una via etica che rende possibile a ogni uomo di impedire la genesi del male. Non c’è messaggio più forte e universale del sostenere che i Giusti non salvano solo gli ebrei, ma l’umanità intera, perché quando l’umanità è in pericolo prima o poi anche gli ebrei sono in pericolo.
Ecco perché, quest’anno, nelle più importanti celebrazioni della Giornata dei Giusti, in particolare a Roma e a Milano, ci siamo concentrati sulle figure dei Giusti per l’Europa, in un momento in cui l’identità politica e culturale del nostro continente viene messa in discussione, mentre riaffiorano odio e antisemitismo che possono rigenerare i mostri del passato. Simone Veil, sopravvissuta ad Auschwitz, che onoreremo al Giardino di Milano, nel suo primo discorso al Parlamento europeo in qualità di presidente, aveva sostenuto che la costruzione europea fosse il migliore antidoto per la prevenzione di future guerre nel continente e per impedire il fascino di nuove ideologie totalitarie, naziste e antisemite. Era lo stesso spirito di István Bibó, che in Ungheria dopo la guerra si era battuto con tutte le forze per la vittoria della democrazia nel suo Paese e dopo l’invasione sovietica del 1956 fu l’ultimo deputato che rimase da solo a preservare il Parlamento. Era convinto che soltanto un sistema democratico e la fine dei nazionalismi in Europa potessero creare le condizioni per un profondo esame di coscienza degli ungheresi sulle loro responsabilità nei confronti della persecuzione ebraica – che avevano scaricato opportunisticamente sui tedeschi. Non è un caso che oggi la politica illiberale e nazionalistica di Orbán stia di nuovo accendendo l’antisemitismo nel Paese. Insieme a questi protagonisti della rinascita europea onoreremo Ada Rossi a Pescara, Ursula Hirshmann a Roma, Eugenio Colorni a Benevento, protagonisti del Manifesto di Ventotene. E onoreremo anche, nel Giardino dei Giusti di Villa Pamphilj nella Capitale, il polacco Bronislaw Geremek, che più di ogni altro credette che l’ancoraggio della Polonia all’Europa fosse indispensabile per il suo Paese, per non cadere in nuove logiche antidemocratiche e in ricadute antisemite – come purtroppo sta accadendo oggi.