Il monumento a Karl Marx, a Chemnitz, Germania - Maximilian Scheffler / Unsplash
L’estensione dei mercati su scala globale, le frequenti crisi che li colpiscono, i conflitti sociali che vi avvampano, le conseguenze dei processi di automazione della produzione, il processo di finanziarizzazione dei capitali e la concentrazione degli stessi in poche mani. Sono tutti temi che oggi, quasi alla metà degli anni Venti del nuovo secolo, suonano familiari. E non per riflesso incondizionato di eventi storici passati ma perché rivelano problemi che ancora informano dinamiche delle attuali società. A farsene carico, centosettant’anni fa, è stata una delle figure di spicco della filosofia e della politica mondiali, che, a partire dall’Ottocento, ha acceso speranze e infiammato gli animi di milioni di persone oltre ad aver influenzato buona parte del pensiero a lui successivo. Oggi il suo nome pare fuori moda. Negli anni del neoliberismo trionfante, in cui la ricerca del profitto detta legge e la crescita imperterrita pare una panacea, egli è associato esclusivamente a illusioni politiche del Novecento e alle loro nefande conseguenze. Così la sua figura è stata lasciata in ghiacciaia, come fosse da maneggiare con cura, all’epoca delle presunte democrazie liberali pienamente realizzate. Se si scorrono le pubblicazioni in lingua italiana degli ultimi anni, ci si imbatte nella riedizione di alcuni suoi testi e in classici della letteratura secondaria. Per il resto poca cosa se si esclude qualche eccezione.
Se non lo si fosse capito, il fantasma che si aggira nelle righe precedenti è Karl Marx (1818-1883), probabilmente il filosofo più noto degli ultimi secoli. Da poco Einaudi, nella collana I Millenni, ha pubblicato l’edizione critica e una nuova traduzione del primo libro di Il capitale (pagine 1.336, euro 95,00), la sua opera maggiore e più sistematica, se fosse riuscito a portarla a termine. A contribuire e a coordinare l’impresa della resa in italiano della nuova versione del testo, oltre a Stefano Breda, Gabriele Schimmenti e Giovanni Sgro’, ci ha pensato uno dei migliori studiosi a livello europeo del pensiero marxiano, Roberto Fineschi, anche curatore del volume. Un lavoro immane che, oltre alla quarta edizione tedesca del 1890, riporta anche le varianti delle precedenti edizioni, i Manoscritti 1863-65 e i Manoscritti 1871-72. Apparso per la prima volta nel 1867, Il capitale, inizialmente progettato in tre libri, non intende offrire solo una nuova teoria economica. Secondo i proponimenti di Marx, ambisce a fornire una completa teoria della società umana, da intendersi però come un mero processo storico-naturale. Le energie profuse dal solitario di Treviri volevano fornire gli elementi per cogliere il funzionamento della società moderna, definendo certo le categorie economiche che la informano, ma anche individuandone i soggetti storici, la “coscienza” e le leggi sottese al suo sviluppo e al suo cambiamento. Dopo aver definito la merce e descritto la loro circolazione, individuato il processo di produzione del capitale e della sua accumulazione, scandagliato l’idea di lavoro, indagato il concetto di forza-lavoro e il suo sfruttamento, fissata l’idea di plusvalore relativo e assoluto, Marx non esita ad affrontare un tema, allora poco considerato, se non in termini di semplice strumento utile alla produzione. Un tema, si diceva, da cui però dipende lo sviluppo della rivoluzione industriale e il capitalismo, anche se Max Weber, Werner Sombart e Amintore Fanfani avrebbero poi pensato e declinato la questione diversamente.
Nel capitolo tredicesimo del primo libro di Il capitale, intitolato Macchinario e grande industria, Marx prende in esame, in maniera puntuale, il nuovo sistema di fabbrica disegnato dalle macchine. Ponendo sotto indagine gli esiti della loro introduzione nel sistema produttivo e soprattutto la realizzazione di un sistema di macchine, Marx rileva alcune dinamiche sociali ed economiche legate all’innovazione tecnologica, che oggi come allora innerva e condiziona la società. Con sguardo disincantato, a differenza dall’approccio ingenuo proprio degli economisti classici suoi contemporanei, distingue lo strumento di lavoro artigiano dalla macchina, in cui «gli strumenti furono trasformati – precisa lo stesso Marx – da strumenti dell’organismo umano in strumenti di un congegno meccanico». E in particolare individua il passaggio successivo quando la macchina, in cui la forza motrice è ancora l’uomo, si incastona in un sistema di macchine, oramai «emancipato dai limiti della forza umana».
«La grande industria – afferma Marx – è rimasta paralizzata in tutto il suo sviluppo finché il suo caratteristico mezzo a produzione, la macchina stessa, è rimasta debitrice per la propria esistenza alla forza e all’abilità personale, dipendendo quindi dallo sviluppo muscolare, dall’acutezza dell’occhio e dal virtuosismo della mano con cui l’operaio parziale nella manifattura e l’artigiano al di fuori di essa manovravano il loro minuscolo strumento». La situazione cambia nel momento in cui la fabbrica diventa una sorta di “automa”, in cui il sistema di macchine subisce un processo di automazione, con macchine motrici e macchine che producono altre macchine, modificando anche i sistemi di trasporto e di comunicazione. Si delinea così un passaggio cruciale in cui la forza-lavoro non è tanto sostituita dal mezzo di lavoro, generando dei processi di retroazione sull’uomo, sul lavoratore preciserebbe Marx, che si adatta al loro funzionamento. Rendendo meno pesanti e più fluidi i compiti da svolgere, non solo vengono arruolati nel nuovo sistema di produzione donne e bambini, ma il tempo da destinare al lavoro si estende 24/7, per utilizzare una bella espressione di Jonathan Crary, 24 ore su 24, 7 giorni su 7, non lasciando più tempo per sé stessi. Ne derivano, soprattutto col lavoro minorile, per Marx «atrofia morale» e «desolazione intellettuale». «Il lavoro alla macchina – continua l’autore del Capitale –, oltre a intaccare in misura estrema il sistema nervoso, reprime il poliedrico gioco dei muscoli ed espropria di ogni libera attività fisica e mentale. La stessa semplificazione del lavoro diventa un mezzo di tortura, giacché la macchina non libera dal lavoro il lavoratore, ma svuota di contenuto il suo lavoro. Un fenomeno comune a tutta la produzione capitalistica che non sia il lavoratore a utilizzare la condizione di lavoro ma che sia viceversa la condizione di lavoro a utilizzare il lavoratore; soltanto con il macchinario questo capovolgimento viene ad avere una realtà effettuale tecnicamente tangibile». Parole che fanno riflettere e che invitano, oggi che tanto diffusamente si parla di processi di automazione e di intelligenza artificiale, a rileggere Marx, sine ira ac studio, di là del materialismo storico e del suo ateismo.
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