Elvis Costello - Ray Di Pietro
«Non prendete il mio disco troppo sul serio. Anche se, certo, quando canto di certe cose lo so che fanno rumore: e il mio non è solo un esercizio calligrafico, ci sono significati forti che intendo provare a rilanciare a chi ascolta». Sorridente e tranquillo, dalla sua casa in Canada, Elvis Costello sintetizza così i due volti del suo magnifico album Hey Clockface, registrato prima del lockdown tra Helsinki e Parigi e poi in “clausura” da remoto fra lo stesso Canada (dov’era lui) e New York (dove agivano i suoi collaboratori, fra i quali il grande chitarrista jazz Bill Frisell).
Hey Clockface è un susseguirsi di stimoli e idee, un caleidoscopio di stili e mood emotivi, un saper spaziare con gusto e classe da brani urticanti e attuali come No flag a maiuscole canzoni d’amore quali Byline, da finti divertissement di denuncia tipo Hetty O’Hara confidential a complessità feroci d’autore come We are all cowards now. Per cantare l’ansia del tempo che scorre, melanconie e valori dell’amare, poesie e bilanci, la diffusa mancanza di pietas e un mondo dominato da «braccia vuote e pornografia della violenza / …siamo tutti codardi, in questi giorni».
Come sta vivendo questo periodo di pandemia?
«A volte con rabbia, anche se so quanto sia poco ragionevole. Però bisognerebbe tentare di più, di capire chi crede che piuttosto che aggiungere restrizioni occorrerebbe inventarsi nuovi modi per riunirsi. Certo questo periodo ti fa apprezzare la natura fugace d’ogni istante e quanto contino cose che dai per scontate, comprese certe libertà. A viverla correttamente, questa situazione dovrebbe farci riconoscere il senso vero del vivere».
E invece lei canta di una società di codardi: è l’America? È il mondo?
«Siamo tutti. Non volevo descrivere una precisa situazione, ma provocare su alcuni temi universali. Per esempio, questo dilagare delle armi e della violenza: ma il coraggio di cui tanto si parla rimane, senza armi? We are all cowards now però parla anche delle troppe vittime invisibili del mondo, quelle che non possiamo nominare perché vengono uccise a nostro nome lontano da dove noi viviamo, perché alcuni si assicurino potere, controllo, una giustizia finta. Non è una canzone politica, comunque, beninteso: è una riflessione sul fatto che non possiamo tenere i piedi in due scarpe, condannare l’omicidio e insieme giustificare certa violenza. Oggi in troppi si rannicchiano dietro un partito o un’ideologia, ed è da codardi. È desolante, che si sia arrivati a una pornografia d’esibizione spavalda della violenza».
Pare desolante anche lo scollamento fra la vita che ci promettono e quella che troppi vivono, come lei canta in Newspaper pane…
«Che è proprio collegata al brano di cui le parlavo prima, un’altra provocazione colma di dolore. Priva però del fotografare una malvagità dilagante verso il prossimo, lì lo sguardo è più intimista. C’è una donna che legge il foglio di giornale che ha incollato alla finestra per proteggersi dal freddo, e si ritrova di fronte una serie di pubblicità per una vita che però lei, e tanti altri, non saranno mai in grado di permettersi. Pure lì parlo dell’oppressione che il mondo d’oggi esercita sulla gente comune».
Mentre They’re not laughing at me now pare sottolineare anche la mancanza di misericordia, di questo mondo: è una lettura corretta del brano?
«Sì, si parte dalla vanità di un personaggio arrogante e si arriva anche a parlare di mancanza di pietà, d’indifferenza dilagante. Pensi che quel brano nacque dieci anni fa, però avevo quasi paura di inciderlo perché non volevo che qualcuno pensasse fosse autobiografico… Io non sono sempre protagonista di ciò che canto, anzi; e mi piacciono i personaggi che fanno risaltare l’ambiguità della vita, dove non è tutto bianco o nero. L’ometto di quel brano, come la donna di The last confession of Vivian Whip, che però si risolve nella tenerezza e non nel male, sono esempi di come spesso l’uomo sia in bilico: potrebbe amare, ma nasconde in sé anche angoli oscuri».
Qual è il senso del suo scrivere? C’è per lei un ruolo dell’artista, magari con una responsabilità aumentata dal fatto che causa Covid la gente che l’ascolterà è più fragile, impaurita, sperduta?
«Il ruolo mio è solo scrivere, proporre un punto di vista; non sta a me dare troppa importanza a ciò che faccio. In generale, per lo più parlo usando la voce di un personaggio e attraverso di lui cerco conferma della mia esperienza di vita, dei miei pensieri. A volte invece, come in No flag, parlo del mondo in senso più ampio: e allora è normale che dica cose più forti. Ma sono sempre prospettive possibili che propongo, non riferimenti etici che cerco d’imporre».
La comunicazione di oggi le permette di far arrivare correttamente quanto scrive? In Radio is everything pare che lei la critichi molto…
«L’idea che voglio sottolineare lì me la porto dentro da quando ero giovanissimo ed è semplice: noi per primi siamo dei media. C’è qualcosa dentro ognuno di noi che si può emanare agli altri, ed è quello il fulcro del comunicare onestamente. Il mezzo migliore per farlo dunque resta la radio: la Tv può essere anche divertente ma vende prodotti, mentre Internet, risorsa potenzialmente meravigliosa, ha tanti lati insidiosi. E risale a questa idea anche il modo con cui ho inciso questo album: lavorando in maniera spontanea, a volte scegliendo all’istante le parole che meglio si adattavano a certe musiche. Credo che far musica significhi essere aperti il più possibile, andare oltre gli stereotipi: nel mio caso della rockband o del cantautore chitarra al collo. Se osi, la musica ti conduce da una stanza a un’altra e ti apre porte decisive cui non avresti mai pensato».