mercoledì 18 dicembre 2024
Johann Wolfgang Goethe scrisse il suo capolavoro assoluto in poche settimane nel 1774: aveva 25 anni
Werther in un dipinto ottocentesco

Werther in un dipinto ottocentesco - -

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Già cinquant’anni dal grande convegno a Napoli del 1974, con la partecipazione dei principali germanisti, da Cases a Hans Mayer, per i 200 anni della pubblicazione dei Dolori del giovane Werther, il capolavoro assoluto di Johann Wolfgang Goethe che lo scrisse in poche settimane nel 1774: aveva 25 anni. Ormai anziano, nel 1824 ritornò al romanzo giovanile: «È una creatura che ho nutrito con il sangue del mio cuore, come il pellicano. C’è in quest’opera tanto della mia vita interiore, della mia anima, dei miei sentimenti e dei miei pensieri» e proseguiva confessando di averlo riletto una sola volta perché quel breve “romanzo” era esplosivo. Così, infatti, fu percepito dalla generazione dello Sturm und Drang in un’Europa già percorsa da fremiti prerivoluzionari che assisteva, stupita e ansiosa, al scricchiolio dell’Ancien Régime. Era (come constatò l’autore) il segnale della «rivoluzione letteraria tedesca». Improvvisamente la letteratura tedesca s’imponeva per la prima volta con un’opera di validità universale con un linguaggio rivoluzionario in cui convergevano in una incomparabile sintesi la sotterranea tradizione spinoziana e la vivacità del cristianesimo pietista con quella rivendicazione di una nuova sensibilità, fondata sul “cuore” dopo un secolo ragionatore e illuminista. Non che Werther ripudiasse il passato, ma se ne emancipava spinto verso orizzonti pervasi da una nostalgia che già annunciava l’appassionato languore romantico con l’esaltazione, anzi con l’esasperazione del soggettivismo (simbolizzato nel romanzo dal “cuore”), sciolto dalla tutela della prudenza devota – quella che ancora regnava in casa Goethe a Francoforte - e dall’garbato equilibrio dell’illuminismo rococò dell’Università di Lipsia, dove per qualche anno aveva studiato giurisprudenza. L’antefatto indispensabile per capire il Werther è che Goethe – a vent’anni - era stato in pericolo di vita. Non si sa bene come si sia salvato. Intervenne un medico pietista e alchimista e quell’incontro con una scienza alternativa dovette impressionare profondamente il giovane autore che in quello stesso anno aveva cominciato a lavorare a un’altra opera, ben più vasta: al Faust, intriso di magia ed esoterismo. E lo sconvolgimento procurato da quei “dolori” giovanili si ripercosse in una autentica rivoluzione linguistica: improvvisamente, come mai prima, il tedesco divenne fluido, flessibile, sinfonico, intrigante, unico. Quello straripamento poetico era una vera eruzione spirituale, esplosione interiore cui non poteva reggere il giovane protagonista così amato, così eroico, così infelice e destinato al suicidio. Il suo autore si salvò scrivendo, scoprendo la scrittura come terapia. E proprio per questo finale disperato fu subito condannato dagli illuministi come Lessing, che non poteva ammettere quella deriva nichilista, quel trionfo dell’irrazionalismo. Anche le Chiese, luterane e cattoliche, condannarono il romanzo, ma con diverse modalità. Quella più attenta e intelligente Goethe, ormai ottantenne, la raccontò al suo segretario, il fido Eckermann, rievocando una memoria del suo viaggio italiano: «Del mio Werther era apparsa molto presto una traduzione italiana a Milano. In breve tempo non si trovò più un solo esemplare dell’intera edizione. Il vescovo era intervenuto e aveva fatto acquistare tutte le copie dai parroci. Io non ne fui contrariato, anzi mi compiacqui dell’acume di quel prelato, il quale aveva capito subito che il Werther era un libro dannoso per i cattolici e non potei fare a meno di elogiarlo per aver trovato, così su due piedi, la soluzione più efficace per toglierlo di mezzo senza clamore». È che il romanzo veniva considerato un’apologia del suicidio. Inoltre il giovane compì l’atto sconsiderato proprio la vigilia di Natale, un autentico sacrilegio per la sensibilità ancora profondamente cristiana del tempo, sicché quando Goethe arrivò a Roma per evitare possibili guai con la polizia usò un comodo pseudonimo, Philipp Moeller, «pittore tedesco», vivendo tranquillamente per quasi due anni, partendo poi per Napoli, più libera, dove riassunse il suo nome. La sua abitazione romana a via del Corso, 18 ospita ora un museo: la Casa di Goethe, che ha celebrato di recente con un convegno, ideato da Gabriella Catalano il 250° anniversario della pubblicazione del romanzo. Anche Milano, lo scorso maggio, aveva ricordato il romanzo con un congresso interdisciplinare, i cui atti sono in stampa come numero monografico di “Cultura tedesca” (Mimesis) a cura di Marco Castellari e Maurizio Pirro. Uno dei saggi – quello di Carmen Mitidieri - è dedicato a un dramma che 50 anni fa fece scalpore (se ne parlò molto a Napoli): I nuovidolori del giovane W. di Ulrich Plenzdorf (1934-2007), uno scrittore della Germania Democratica, la Ddr, quella al di là del Muro: è un testo ormai scomparso con la fine della Ddr. Allora, nel 1974, pareva una strana reincarnazione del romanzo goethiano, che però vive di vita propria, quella intramontabile dell’arte quando incrocia l’impulso indomito della scrittura, come confessione, appunto “poesia e verità” come scrisse Goethe, riferendosi al Werther: «Avevo vissuto, amato e sofferto moltissimo! Questo è tutto».

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