Don Luigi Sturzo nel 1959 - Alamy Stock Photo
Anticipiamo alcune pagine del saggio di Nicolò Maccavino, docente di storia della musica presso il Conservatorio Francesco Cilea di Reggio Calabria, dal volume da lui curato Don Luigi Sturzo e la musica (LIM, pagine 267, euro 38,00). Il libro ricostruisce per la prima volta un aspetto poco noto ma non minore del sacerdote e fondatore del Partito Popolare Italiano: don Sturzo svolse l’attività di critico musicale, storico della musica e compositore. Il volume inoltre raccoglie tutti gli articoli di argomento musicale e tre saggi musicologici pubblicati in esilio a Londra nel 1927 e negli Stati Uniti nel 1943, e pubblica in edizione critica le sue composizioni sacre superstiti.
Mentre le musiche del vaudeville e della bizzarra Turlupineide sono andate perdute, altre, composte da Sturzo grosso modo nello stesso periodo, cioè fra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, ci sono giunte integre. Si tratta di sette brani i cui manoscritti sono custoditi nell’Archivio Musicale Comunale di Caltagirone e attualmente ubicate presso la Biblioteca dell’Istituto Musicale “Pietro Vinci” della stessa città. Cibo celeste è l’unico brano il cui testo – forse dello stesso don Luigi – non è in latino ed è per voci femminili; esso, inoltre, come Le Tre Lezioni, ci è giunto soltanto nella versione per orchestra.
Don Sturzo compose i suoi brani negli anni in cui frequentava il Seminario come studente e poi – presi gli ordini – in qualità di direttore della Schola cantorum; e la loro destinazione riflette quelle che erano le celebrazioni liturgiche a cui era particolarmente sensibile: l’Eucarestia, il Santissimo Sacramento, il culto a Maria Santissima e la Settimana Santa. Nel dar vita alle sue composizioni egli si attiene, più o meno da vicino, ai principii portati avanti in Italia dal movimento di riforma della musica sacra che, iniziato negli ultimi anni del papato (1846–1878) di Pio IX, continuò sotto Leone XIII (1878–1903), trovando la compiuta realizzazione col Motu Proprio di Pio X del 1903. Di tale movimento don Luigi conosceva i maggiori protagonisti, le regole cui attenersi e le difficoltà che ne conseguivano. Ed è lo stesso don Luigi a darcene notizia in un articolo, pubblicato il 31 dicembre 1943 nel settimanale «The Commonweal», dal titolo eloquente: La musica di chiesa italiana: «Gli uomini della riforma furono Tebaldini ([…] che fu uno dei più puri e geniali compositori italiani, per molti anni maestro a Loreto), Terrabugio, Bottazzo e molti altri già nel periodo leonino; essi diedero una spinta notevole a una sana concezione della musica di Chiesa. Bossi superò molti suoi contemporanei; Perosi venne poco dopo e divenne famoso per i suoi oratori assai più che per le sue Messe. Casimiri (morto quest’anno) è da mettersi sopra degli altri, anche di Refici (sic). […] Quel che rende difficile la produzione musicale di Chiesa, dopo Pio X, è da un lato la mancanza di voci femminili e il divieto degli assoli; e dall’altro, la insufficienza di cori, specialmente di ragazzi, nelle Chiese parrocchiali. […] Allo scopo di seguire la liturgia, è meglio una musica senza personalità eccezionale, che quella di musicisti di cartello».
Il problema della musica sacra – scrive Sturzo – consiste in questo dilemma: «O educare il pubblico a sentire la musica, e ogni altra arte, come intimamente legata alla concezione e alla vita religiosa, e allora avremmo le Messe di Bach, Beethoven, Mozart, Gounod, Verdi; ovvero secondo la riforma piana, accompagnare la liturgia senza disturbarla e allora accettiamo lo stile subordinato al rito di Tebaldini e di altri come lui, Casimiri compreso». Sbagliano – conclude Sturzo “meravigliato” – i critici come Richard Ginger a credere «che i musicisti italiani moderni vogliano imitare Palestrina: tutt’altro. La loro tecnica, infatti, è assolutamente moderna, poiché avendo come strumenti il coro maschile e l’organo, e non potendo indulgere sulla linea melodica e sugli assoli, debbono usare la struttura armonizzata delle tre o quattro parti, con le luci e le ombre che dà un coro, nelle imitazioni, nei canoni e nelle fughe».
Ecco, dunque, lucidamente sintetizzate – e dallo stesso autore – quelle che sono le principali peculiarità dei suoi brani composti fra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. Affidati ad ensemble vocale-strumentali per voce sola oppure per cori a due, tre o quattro voci maschili accompagnati – in origine – dall’organo e/o dall’armonium, essi si distinguono per un melodizzare, quasi sempre sillabico, a volte semplice e gradevole, altre volte nervoso e complesso ben adatto, tuttavia come indicato nel Motu Proprio, ad esprimere ed esaltare il significato del testo e la sua intelligibilità, il cui senso profondo viene sottolineato e amplificato musicalmente.