martedì 3 dicembre 2024
La mostra "Realismo infinito" al Museo Diocesano di Milano ricorda il fotografo scomparso un anno fa. Nelle sue immagini il mondo si rivela abitato dall'eterno
Giovanni Chiaramonte, "Corpus Christi, Texas", 1991

Giovanni Chiaramonte, "Corpus Christi, Texas", 1991 - Archivi Giovanni Chiaramonte

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A distanza di poco più di un anno dalla scomparsa improvvisa, Milano – ed è significativo che sia il suo Museo diocesano a farlo – ricorda Giovanni Chiaramonte con una mostra fotografica che in quaranta immagini ripercorre due decenni fondamentali, dal 1980 ai primi anni del 2000, della sua ricerca attorno al paesaggio e alla veduta urbana. “Realismo infinito”, a cura di Corrado Benigni (fino al 9 febbraio), è una ripresa aggiornata dell’ultima mostra realizzata in vita del fotografo e vede per l’occasione anche la ripubblicazione della bella monografia omonima sempre curata da Benigni (Electaphoto, pagine 132, euro 55,00), edita in origine nel 2022 e andata nel frattempo esaurita. Un prezioso addendum, curato da Umberto Bordoni, è costituito in mostra dalle immagini realizzate da Chiaramonte nel 2011 per il Nuovo Evangeliario Ambrosiano, piccoli densissimi lavori che riportano alla primissima fase della ricerca del fotografo.

Il percorso di “Realismo infinito” si àncora a quella poetica interstiziale di Viaggio in Italia a cui Chiaramonte diede un contributo essenziale (anche in virtù del sodalizio umano e culturale con Luigi Ghirri, con il quale aveva fondato la casa editrice Punto e Virgola) ma soprattutto ne segue l’evoluzione e la capacità di colorarsi di timbri differenti in reazione ai diversi contesti in cui si il fotografao si è trovato a operare: l’Italia, l’Europa, le Americhe. Il processo è inverso nel moto ma identico nello spirito a quello compiuto nel 2000 nella mostra “Milano. Cerchi della città di mezzo”. Lì Chiaramonte portava lo sguardo sullo spazio e su quanto lo abita muovendo dalle periferie al centro. “Realismo infinito” procede per ampliamenti, seguendo il cerchio d’onda, da Milano ad Atene e Berlino, da Istanbul a Gerusalemme, dagli Stati Uniti coastto coast fino a Cuba, Messico, Panama. Vale però quanto il fotografo scriveva allora: «È facendo centro sull’infinito che io da allora guardo la città, nell’enigma del vuoto e dell’assenza come nel mistero della continuità e della presenza (…) Nel lento costruirsi del lavoro, ho visto con stupore le immagini illuminarsi al loro interno e prendere luce e colore proprio a partire dalla linea dell’infinito che il mio obbiettivo era costantemente costretto a mettere a fuoco. È nell’incontro con l’infinito, contemplato invano per anni prima di essere da me accettato come dimensione quotidiana della vita, che si fa vera la condizione umana».

Fotografo intellettuale, teorico e produttore di cultura nel senso più esteso possibile, Chiaramonte è stato uno dei pochi ad affrontare la fotografia non solo in chiave filosofica ma anche esplicitamente teologica (l’autoritratto attraverso i libri della sua biblioteca, ai quali si appoggiala protofotografia della Sindone, è chiarissimo in questo senso). Il suo rifarsi in particolare a una tradizione che muovendo da von Balthasar si spostava a Oriente, tra Evdokimov, Clément e un altro teologo per immagini come Tarkovskij, non poteva che radicare il suo pensiero nel problema dell’eternità che abita l’icona e che, trasposto nel fotografico, assumeva una qualità essenziale di sguardo e di ricerca. Lo scatto fissa, possibilmente fino alla fine dei tempi, il frammento di un mondo che si configura agli occhi di Chiaramonte come abitato intrinsecamente dall’eterno. Un eterno che ha la qualità di una luce calda in cui a prendere corpo non è l’attimo miracoloso ma la continuità di un tempo di grazia, capace di contenere in sé tutti i contrasti possibili. In questo senso si illumina ulteriormente quel “realismo infinito” del titolo. Se Ghirri si concentra sulla fotografia come sguardo che misura il mondo, Chiaramonte ne studia un limite che è intersezione. Quel “più in là” che forse inconsciamente sembrano scrutare le figure delle sue immagini, sempre intente a guardare qualcosa che sta oltre il margine e la superficie della fotografia.

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