La disperazione delle ragazze di Herat alla notizia della chiusura delle scuole di ostetricia - .
Non si dà pace da lunedì sera, da quando la notizia è circolata sui canali Telegram locali. «Ci hanno portato via tutto, per la seconda volta!», scrive confusa Noor Sama, 26 anni, studentessa di scienze infermieristiche a Herat, tra la rabbia e uno sconforto che sembra montare con il susseguirsi dei messaggi che invia su Whatsapp.
Per decisione del Ministero della Salute Pubblica afghano, i corsi e i training femminili negli istituti di scienze della salute sono «sospesi in tutto l'Afghanistan fino a nuovo avviso».
Per le poche studentesse che erano ancora autorizzate a entrare in una classe anche l’ultima possibilità di istruirsi si è dissolta, da un giorno all’altro.
I corsi di discipline medico-sanitarie, cioè ostetricia, infermieristica e fisioterapia, erano rimasti gli ultimi che le ragazze potessero frequentare per garantire, in futuro, personale sanitario femminile alle pazienti donne negli ospedali del Paese (che non possono essere visitate né curate da uomini, se non in presenza di un tutore). «Non riesco a calmarmi, fanno tutto il possibile per impedire l'avanzamento delle donne. Non riesco a dormire stasera», prosegue la ragazza. Lezioni finite, aule sbarrate, dunque, per le 17.000 studentesse che erano state costrette, già una prima volta, a lasciare le loro facoltà e non avevano avuto altra scelta se non iscriversi ai corsi sanitari.
Anche Noor Sama in passato studiava materie completamente diverse, alla facoltà di sociologia. Per tutte le altre ragazze sopra i 12 anni dall’agosto 2021 c’è il divieto di istruzione secondaria e superiore.
«Questo totale disprezzo per la vita e la dignità umana è difficile da comprendere sulla base dei valori culturali e religiosi che la leadership taleban afferma di rappresentare», ha commentato oggi Terje Watterdal, direttore del Norwegian Afghanistan Committee (Nac) di Kabul. L’ong ha attualmente quasi 600 giovani donne iscritte in programmi biennali o triennali di diploma. «Ci sono stati dati alcuni giorni per sospendere temporaneamente il programma. Lo hanno comunicato solo a voce, come di solito i taleban fanno».
Secondo la sua esperienza, la decisione porterà inevitabilmente a un aumento del divario tra città e campagne nell'accesso ai servizi sanitari. «Infatti, gli Istituti regionali di scienze della salute, che noi e altre organizzazioni gestiamo e supportiamo, istruiscono principalmente giovani donne provenienti da aree rurali con scarso o nessun accesso a professionisti sanitari. Si tratta tra l'altro di aree che sono le più vicine (in termini di controllo, ndr) ai taleban. La decisione aumenta ulteriormente il divario tra i ricchi e i poveri, poiché chi se lo può permettere attraversa il confine con l'Iran e il Pakistan per i servizi sanitari, mentre i meno abbienti dipendono da servizi disponibili all'interno del Paese». Che, però, sono severamente carenti.
Lo scorso agosto l’Unfpa, l'agenzia delle Nazioni Unite per la salute sessuale e riproduttiva, in Afghanistan denunciava «l’urgente bisogno di altre 18.000 ostetriche qualificate per soddisfare la domanda di assistenza al parto».
Il Paese ha già uno dei peggiori tassi di mortalità materna al mondo: secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) si attesta a 620 decessi di donne ogni 100.000 nati vivi (per fare un confronto, in Italia il tasso è di 8,3 decessi ogni 100.000 nati vivi secondo l’Italian Obstetric Surveillance System dell’ISS).
«Il fatto che la leadership dei taleban ora favorisca chiaramente l'élite urbana benestante è in forte contraddizione con tutto ciò che essa afferma di rappresentare», conclude Watterdal, che però non vuole darsi per vinto. «C'è ancora tempo per permettere che i taleban ci ripensino e dimostrino alle donne, agli uomini e ai giovani dell'Afghanistan di mettere il loro popolo al primo posto».