Donne e bambini in fuga dai territori occupati dagli austriaci dopo la disfatta di Caporetto, novembre 1917
I primi civili, spaesati e impauriti, se n’erano andati da Cividale e da San Pietro al Natisone la mattina del 25 ottobre 1917, diretti verso Udine. Si trattava soprattutto di borghesi che avevano deciso di lasciare le proprie case solo una manciata di ore prima, quando alcuni soldati di passaggio avevano raccontato loro, con terrore, ciò che stava accadendo lungo il vicino fronte. Nella notte l’artiglieria austro-germanica aveva attaccato violentemente le postazioni italiane tra la conca di Plezzo e i margini settentrionali dell’altopiano della Bainsizza bombardando le retrovie, lanciando granate di acido cianidrico nelle trincee e aprendosi così una breccia, quando si era fatta ormai l’alba, all’altezza della zona di Tolmino verso il Tagliamento.
Nonostante le rassicurazioni delle autorità, nei paesi intorno a Udine si era diffusa la voce che la sconfitta dell’esercito italiano era ormai un fatto compiuto e che molto presto sarebbero arrivate torme di tedeschi e di austro-ungarici a saccheggiare le loro case e devastare le loro terre.
Di fronte a questa minaccia, chi poteva aveva perciò deciso di raccattare le proprie cose e mettersi in cammino; si era mescolato alle lacere truppe in ritirata dal fronte, occupando le già ingombre strade e facendosi largo tra gli elmetti, i pesanti fucili, gli zaini abbandonati sui cigli e lungo le rogge. Dopo di loro, tra il 27 e il 28 ottobre molti abitanti di Udine, di Pordenone e, un paio di giorni più tardi, di diversi paesini della Carnia fecero i bagagli in fretta e furia e abbandonarono le proprie case, chi a piedi, chi a bordo di carri, qualcuno con il treno, alla ricerca di un rifugio sicuro altrove. Meglio se al di là del Tagliamento.
Tra i fuggiaschi c’era quasi tutta la classe dirigente udinese, rimasta senza indicazioni da parte del governo: c’erano il sindaco, il prefetto, il deputato radicale Giuseppe Girardini. Differentemente dai parroci, che scelsero di restare nei paesi invasi, c’era anche l’arcivescovo Antonio Anastasio Rossi, che approfittò dell’ultimo tram diretto a San Daniele per mettere in salvo la propria pelle. Pure il Comando supremo, con il generale Luigi Cadorna – che il 28 ottobre aveva diramato un agghiacciante bollettino in cui addossava le colpe della disfatta ai soldati, «vilmente ritiratisi senza combattere, o ignominiosamente arresisi al nemico» – e il parigrado Carlo Porro, si era precipitato a lasciare Udine per Treviso e, successivamente, per Padova. Ciò mentre le truppe, reduci da un disperato tentativo di resistenza sul Tagliamento, erano state costrette a proseguire la ritirata fino al fiume Piave.
In quelle stesse ore migliaia di altri militari sbandati stavano indietreggiando dalle montagne del Cadore al Piave, seguiti, anche in questo caso, dai tristi cortei dei civili in fuga. In pochissimi giorni diverse centinaia di migliaia di persone avevano lasciato le province friulane e venete conquistate dall’esercito austro-ungarico – ma anche quelle non invase – per riparare in altre regioni d’Italia; coloro che invece in quei territori, occupati e non, avevano deciso di restare, lo avevano fatto per i motivi più diversi ma tutti, indistintamente, venivano definiti dall’opinione pubblica, con spregio, «austriacanti», collaboratori della tirannia straniera.
Nelle drammatiche settimane seguite alla rotta di Caporetto l’Italia venne attraversata da oltre 630 mila profughi e da 100 mila soldati, come riporta lo storico trevigiano Daniele Ceschin nel saggio Gli esuli di Caporetto (Laterza): civili provenienti dalle province di Udine, Belluno, Treviso, Venezia, Vicenza; quelli dell’altopiano di Asiago e del distretto di Schio, divenuti rifugiati con la Strafexpedition del maggio-giugno 1916; e poi trentini, triestini, goriziani, istriani, fiumani e dalmati nonché i rimpatriati a causa della guerra. A seguire la tormentata via del profugato erano soprattutto donne e bambini, talvolta anche gli anziani e gli invalidi poiché gli uomini, se abili, erano stati richiamati al fronte: a bordo di treni venivano inviati dal ministero dell’Interno in regioni lontane dalla guerra come la Lombardia, l’Emilia Romagna, il Piemonte, la Campania, la Sicilia, la Calabria.
Venivano fatti alloggiare in alberghi requisiti dai prefetti su ordine del ministero (fatto, questo, che suscitava lo scontento dei proprietari una volta arrivata la stagione estiva), all’interno di strutture religiose e in case sfitte e potevano contare su un sussidio giornaliero di una lira e 25 centesimi anticipato dai comuni. Tuttavia per vivere, per mangiare, per vestirsi, il sussidio non bastava e allora per molti di loro era necessario trovare un lavoro, perdendo però, così facendo, l’aiuto statale.
Inizialmente circondati dalla solidarietà della gente locale, i profughi avevano dovuto poi fare i conti con la diffidenza: un sentimento aspro divenuto col tempo pregiudizio, e infine aperta ostilità. «Siamo tenuti per cannibali», era l’amara considerazione espressa in una lettera da una profuga udinese in Toscana. Dalla prima metà del 1919 mezzo milione di loro poté fare ritorno ai propri paesi, alle proprie case, quando queste non fossero state distrutte dai bombardamenti. Ma in quel momento, in quei luoghi, un altro conflitto era appena scoppiato: quello contro i «rimasti» nei territori invasi, considerati dalla propaganda post bellica la «feccia della popolazione». Per la loro scelta, al tempo definita vigliacca e traditrice, vennero esclusi dall’assistenza, da tutti gli incarichi comunali e dalla possibilità di riutilizzare i tanti fabbricati dismessi.