Giotto, Allegoria della Carità. Padova, Cappella degli Scrovegni - WikiCommons
Fuoco e fiamme: che altro dovrebbe fare l’amore? Divampa e non si consuma, brucia e intanto nutre come nutre il latte, arde il cuore e affina il sentimento. La metafora è molto antica, se ne serve già Virgilio nell’Eneide per alludere al risveglio del desiderio nella vedova Didone (agnosco veteris vestigia flammae), ma è fra il XIII e il XIV secolo, nel pieno del Medioevo italiano, che l’incendio si scatena con maggiore intensità. Tutto sta a capire in che punto si inneschi la scintilla, se nei versi del massimo poeta in volgare o nelle immagini del più grande pittore del tempo.
Dante e Giotto, esattamente, ancora una volta appaiati nell’indagine che l’italianista Donato Pirovano conduce in La nudità di Beatrice (Donzelli, pagine XVI-230, euro 33,00), saggio dottissimo e avvincente, giocato con sapienza sul diffondersi e rifrangersi di un paio di elementi cruciali: il cuore dell’amante offerto in pasto, il fuoco che illumina e santifica. Per completare lo scenario esplorato da Pirovano – professore di Filologia e critica dantesca all’Università di Milano – occorre almeno un altro nome, quello di Ambrogio Lorenzetti, anche lui impegnato nel diffondere questa nuova «iconografia della Carità». Che è virtù teologale, non si discute, e in quanto tale si presta alla raffigurazione allegorica. Dante è Dante, però, e il suo territorio prediletto è quello dell’anagogia, la forza vettoriale che dal sensibile conduce allo spirituale. Beatrice è in primo luogo “la beatrice” e il suo saluto è molto più di un atto di cortesia. È un annuncio di salvezza. Anzi, è tutta la salvezza che un essere umano possa sperimentare su questa terra.
La ricerca di Pirovano si concentra su un nucleo abbastanza ristretto di ricorrenze, che si manifestano con intensità inconsueta nello scorcio di tempo sopra ricordato. Non si tratta di novità in termini assoluti, dato che per ciascuna delle componenti analizzate è possibile rinvenire precise fonti scritturistiche, patristiche e filosofiche, secondo una rete di rispondenze che lo studioso ricostruisce con ammirabile sicurezza. Innovativa è semmai la combinazione di un tratto con l’altro, lungo una linea che unisce la Vita nuova sia agli affreschi padovani della Cappella degli Scrovegni sia a quelli senesi dell’Allegoria del Buon Governo.
Difficile stabilire quale sia il documento di partenza. Da parte sua, Pirovano è propenso a riconoscere la primogenitura di Dante, ma quello che più conta è la percezione di un «contesto comune» all’interno del quale le fonti letterarie si mescolano con quelle figurative, fino a comporre un intreccio pressoché inestricabile. All’origine del ragionamento di Pirovano c’è il sonetto dantesco A ciascun’alma presa e gentil core, inizialmente pubblicato in forma autonoma e poi inserito come primo documento poetico all’interno della Vita nuova. Il testo si presenta in modo abbastanza enigmatico: incerto sull’interpretazione da dare al proprio sogno, l’autore si rivolge ai confratelli d’arte per ottenere il loro parere. La visione onirica ha in effetti qualcosa di inquietante. Amore in persona tiene tra le braccia Beatrice, che dorme «involta in un drappo», e la ciba con il cuore del poeta, il quale a sua volta miracolosamente sopravvive alla mutilazione. Come se non bastasse, l’iniziale allegria di Amore cede il passo a una disperazione che sembra annunciare la morte dell’amata.
In ossequio alle consuetudini letterarie dell’epoca, il sonetto riceve una serie di “responsive”, tra le quali spicca per bizzarria quella di Dante da Maiano (uno che si attiene al senso letterale e di quello si accontenta) e per complessità quella di Guido Cavalcanti, il «primo amico» la cui strada è destinata a separarsi presto rispetto all’itinerario metafisico di Dante. In attesa di questa divaricazione, Guido ha buon gioco nel contestare la svolta moralistica di Guittone d’Arezzo, che nella sua corona di sonetti contro il «carnale amore» esprime una teoria delle passioni inaccettabile per gli stilnovisti. La posizione sarà attardata finché si vuole, ma non impedisce a Guittone di esercitare una certa influenza sull’immaginario contemporaneo. La sua stilizzazione del mal d’amore (o «amore hereos », come recita l’ingenuo grecismo in uso presso i medici medievali) si impone per alcuni dettagli: uno su tutti, quello degli artigli da cui la vittima dell’infatuazione viene agguantata.
Nel frattempo, Dante ha inserito il sonetto nella Vita nuova, e in posizione decisiva. Lui e Beatrice si sono già incontrati una prima volta, all’età di nove anni, ma l’avvenimento non si è tradotto in versi. Nove anni dopo, al momento del secondo incontro (quello fatale, in cui Beatrice concede la «salute» a Dante), ecco che la poesia fa irruzione nel dettato della prosa. Dante non si limita a trascrivere l’ormai famoso sonetto, ma lo accompagna con una riscrittura del medesimo racconto, come annota Pirovano.
Ne deriva una sorta di versione alternativa, che aggiunge nuovi particolari. Il più clamoroso riguarda il fatto che, sotto il tessuto del quale finalmente conosciamo il colore (è «sanguigno», sia pure «leggeramente»), Beatrice è nuda: castamente e creaturalmente nuda, come Eva prima del peccato. Non meno importanti sono le parole pronunciate da Amore, che si proclama dominus del poeta, ma è sulla nudità della donna che Pirovano giustamente insiste, ravvisando in essa un richiamo alla dottrina dell’Incarnazione. Il fuoco che dilaga per tutta la scena – e che ha come esca il cuore stesso del poeta – è la conferma dell’avvenuta pacificazione tra l’anima e il corpo o, se si preferisce, tra l’umano e il divino.
Amore cessa così di essere un malanno e si trasfigura in Carità, quella stessa Carità che Giotto ritrae a Padova mentre dona a Cristo un cuore con tanto di aorta appena recisa. Rovesciando l’interpretazione corrente, Pirovano si dichiara persuaso che i versi della Vita nuova siano la fonte dell’affresco, e non viceversa. Ancora una volta, la scintilla si propaga in modo imprevedibile. Quel cuore strappato e bruciante non è più soltanto il simbolo del trasporto erotico, ma assume consistenza teologale e, da ultimo, civile, come testimonia appunto l’opera di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena, dove la Carità si identifica con l’amor di patria e misticamente lo trascende.
Il regesto figurativo allestito da Pirovano per sostenere le argomentazioni della Nudità di Beatrice è ancora più ampio e prende in esame artisti anche relativamente poco conosciuti oltre a capolavori di conclamata notorietà. Un posto d’eccezione va forse riservato alla cosiddetta Maestà di Massa Marittima, realizzata dallo stesso Lorenzetti attorno al 1335. Qui la Carità siede ai piedi della Vergine e quasi ne condivide il rango. Vestita di un velo trasparente, in una mano impugna il dardo che ritroveremo brandito dall’angelo nell’Estasi di santa Teresa d’Avila di Gian Lorenzo Bernini e nell’altra tiene un cuore incandescente. Fuoco e fiamme, di nuovo. In fondo, che altro dovrebbe fare l’amore?