Una scena del documentario “Qui è altrove” di Gianfranco Pannone che racconta il progetto “Per Aspera ad Astra” di Armando Punzo nel carcere di Volterra - -
Alla ricerca di un altro carcere possibile, di una nuova strada da percorrere, di una via di uscita dalla propria condizione negativa. A Volterra, nell’istituto di detenzione all’interno della Fortezza Medicea, da cui prende il nome la realtà che fa capo al regista Armando Punzo, Compagnia della Fortezza, si lavora con detenuti e allievi per mettere in scena la vita, non la morte. Come ogni estate, Punzo allestisce il suo spettacolo nel carcere, mentre alcune compagnie teatrali che operano in vari istituti di pena italiani animano il progetto “Per Aspera ad Astra”, promosso da Acri e sostenuto da 12 fondazioni. Gianfranco Pannone è stato chiamato a realizzare un documentario sull’esperienza di Punzo, dai titolo Qui è altrove: buchi nella realtà, che ha aperto la 65ª edizione del Festival dei Popoli di Firenze e ora si appresta a intraprendere un tour in tutta Italia. Un lavoro corale che testimonia il lavoro della Compagnia della Fortezza, concentrata sul primo capitolo dell’ambizioso progetto, Atlantis cap.1 – La Permanenza. La macchina da presa di Pannone “pedina” i protagonisti seguendo due diversi percorsi: se nella prima parte del film carcere e città sono luoghi ben distinti, realtà diverse e distanti, nella seconda parte quei due mondi si impastano fino a diventare una cosa sola. I professionisti della scena, i detenuti e gli allievi di una masterclass dove si discute del senso del teatro stesso, vivono dunque un’esperienza totalizzante che diventa il film. «Conosco bene Armando Punzo e Cinzia De Felice, che sono l’anima della Compagnia della Fortezza – dice Pannone - e da molti anni e seguo i loro spettacoli. Il nostro rapporto di amicizia e stima reciproca è sfociato l’anno scorso con questa “chiamata” a realizzare non un documentario celebrativo, né istituzionale. Il titolo rimanda proprio al teatro di Armando dove c’è una dimensione altra. L’altrove è il carcere, ma il campo si può allargare a tutte le nostre prigioni mentali. È stato interessante approfondire il rapporto del regista con i detenuti attorti, la sua capacità di estrarre l’impossibile dando loro dei testi che non conoscono, lavorando su qualcosa che non appartiene alla loro cultura». Non testi classici dunque, ma scritti sperimentali, astratti, parole di filosofi e scrittori che richiedono un grosso lavoro da parte di chi decide di farli propri. «Volevo che nel documentario rimanesse questa astrazione, per questo non sono entrato nel senso dello spettacolo che mettono in scena. Mi interessa la partitura per corpi e volti, il contrasto tra testi alti e i visi autentici di questa persone impegnate in un rito collettivo, qualcosa di corale che li fa uscire, seppure momentaneamente, dalla dimensione del carcere». Pannone insiste sul senso più profondo dell’esperienza teatrale di Punzo, che il suo documentario intende restituire. « L’obiettivo non è quello di fare del facile sociologismo del carcere, ma piuttosto sottrarre qualunque elemento di pietismo. Il carcere diventa una piazza dove si comunica, un luogo da scardinare attraverso il teatro. Punzo guarda in faccia il detenuto come persona e io ho cercato di trasmette tutto questo trasformando i detenuti in esseri umani da collocare in una dimensione corale. In questo sta la rivoluzione del teatro in carcere. Un altro carcere deve essere possibile se solo nel 2024 si sono suicidati 70 detenuti. Il gesto che facciamo diventa anche politico, ma io guardo alla capacità di papa Francesco di trasmettere grande attenzione verso il mondo delle carceri in una società dove esiste la convinzione che il detenuto debba soffrire. Idea della persona è fondamentale. Il mondo deve allora paradossalmente aprirsi verso l’interno, facendo in modo che le sbarre svaniscano. Solitamente i detenuti vivono isolati, si ha paura di loro. Noi vogliamo mostrare un mondo che cambia attraverso l’azione teatrale: solo in questo modo il teatro diventa liberatorio». A colpire nel film è anche la dedizione che i detenuti dimostrano verso il progetto. « Armando riesce ad attivare intorno a se un’attenzione particolare. Chi vive in prigione ha l’occasione di uscire dalla sua routine quotidiana, ma c’è tanta voglia di crescere. La cosa più commovente è stata vedere Elio, tornato in libertà con un diploma e la passione per Shakespeare. Ha trovato un’altra dimensione, ha capito che teatro è un modo per crescere e la cultura è il mezzo attraverso cui spingersi fuori dalla propria condizione di vita. Non ho chiesto la biografia a nessuno dei detenuti, non so per quali reati siano li. Ma è stato bellissimo vederli cambiare e crescere. Non abbiamo mai avuto intenzioni “salvifiche”, ma l’uomo ha la possibilità concreta di uscire dalla propria condizione negativa. Molte persone si salvano da sole grazie al teatro, che mostra altre strade possibili. A chiunque può capitare di sbagliare, ma chiunque ha diritto a una possibilità di riscatto. Se mostri un’altra strada possibile a chi ha commesso un errore, questa può reinventarsi una vita. Un messaggio importante in un momento storico di grande intolleranza, violenza e sopraffazione».