Corazzieri schierati in occasione della visita di Hitler a Roma, nel 1938 - Alamy Stock Photo
Un nucleo di resistenza a difesa della capitale dal nazifascismo dopo il 16 ottobre 1943. Una data significativa per gli ebrei di Roma e per tutta la cittadinanza che registrò il primo grande rastrellamento in Italia che coinvolse oltre mille persone di ogni genere, età e condizione. E’ dagli archivi della memoria e della storia che a distanza di oltre ottant’anni emergono documenti e dettagli che valorizzano il contributo dei militari italiani alla lotta di Liberazione. «Così come la parola resistenza va ormai declinata al plurale, anche la resistenza dei militari italiani va declinata al plurale – spiega lo storico Luciano Zani, presidente vicario dell’Anrp, l’associazione nazionale reduci dalla prigionia, dall’internamento, dalla guerra di liberazione e loro familiari -. C’è una prima resistenza, immediata e armata sul fronte balcanico, come a Cefalonia, Lero, Corfù, ma sono state documentate sempre più numerose forme di resistenza su tutti i fronti: di piccoli gruppi di militari o di interi reparti, come in Corsica; a margine dello scioglimento della IV armata nella zona del Cuneese; al Moncenisio, al Frejus, a Piombino, a Porta San Paolo a Roma; di diversi presìdi italiani che rifiutarono di consegnare le armi e si difesero aprendo il fuoco sui tedeschi; di singoli militari che persero o rischiarono la vita con la loro resistenza». Si tratta di molti episodi, da poche ore a diversi giorni, che la storiografia ha per lo più ignorato, che di per sé non smentiscono la dissoluzione dell’esercito italiano, che c’è stata, ma, prosegue il professore emerito della Sapienza, «confortano l’idea che, se diversamente e preventivamente organizzata, e uniformemente gestita, la disponibilità dei nostri militari a resistere ai tedeschi e a combattere contro di loro fosse più ampia di quanto si sia fatto credere. C’è poi una seconda resistenza, quella dei 650mila Internati militari italiani che rifiutarono l’arruolamento nella Wehrmacht e nell’esercito di Salò. La terza resistenza è quella dei militari che combatterono nell’esercito del Regno del Sud o che contribuirono a formare le prime bande partigiane, portando armi ed esperienza» aggiunge Zani.
A destra, la prima pagina della relazione Mureddu custodita presso l’Archivio Storico della Presidenza della Repubblica e pubblicata nel volume “Il nemico numero uno" - Viella
Le diverse forme in cui i carabinieri romani, nei primi mesi dell’occupazione nazista, contribuiscono alla resistenza clandestina, dissimulata in vari modi, emergono nei documenti inediti inseriti in appendice a Il nemico numero uno a cura di Yael Calò, Lia Toaff e dello stesso Zani (Viella, pagine 204, euro 20,00), che riportano alla luce la “relazione Mureddu”, conservata nell’Archivio Storico del Quirinale. Il volume, come scrive nella prefazione Marina Giannetto, sovrintendente dell’Archivio Storico della Presidenza della Repubblica, nasce dal seminario sul “Dovere della Memoria” e «si inserisce in un percorso di studio avviato dal 2022, nel farsi dell’organizzazione delle iniziative promosse in occasione del compiersi del centenario dall’avvento del Fascismo e di un ottantennio dalla caduta del regime e dagli eventi drammatici che a questo seguirono». È da questi fatti che emerge in maniera inedita il ruolo dei carabinieri, e in generale dei militari, nella resistenza clandestina organizzata a Roma nei mesi successivi all’8 settembre 1943. Il capitano dei carabinieri Matteo Mureddu, in servizio come funzionario della Real Casa, sfugge alla cattura il 7 ottobre e si dà alla macchia, entrando a far parte del Fronte Militare della Resistenza. Agli ordini del generale Filippo Caruso, Mureddu organizza un nucleo di oltre 150 uomini, 66 carabinieri, 29 corazzieri e militari di altre armi e impiegati civili del Quirinale. Nel febbraio del 1944, d’intesa con il Segretario generale del Quirinale, Vittorio De Sanctis, si trasferisce a palazzo nella sua doppia veste di carabiniere-funzionario e di carabiniere-resistente. «Da questo momento opererà su due fronti: la difesa dei gioielli della Corona e dei beni e valori conservati nel palazzo, per evitare che finiscano preda delle razzie delle SS, come già accaduto per vini e cavalli; la raccolta di armi per la resistenza – sottolinea Zani -. Tre casse di bombe a mano, moschetti, fucili, mitra e pistole con relative munizioni vengono nascosti in un locale sotterraneo, cui si accede da una botola nascosta sotto le piante del giardino». Il resto della relazione, dopo la minuziosa descrizione dei gioielli e dei beni, è una straordinaria cronaca in tempo reale dell’attentato di via Rasella, vista dall’interno del palazzo che costeggiava la via: l’accoglienza e il soccorso a cinque donne ferite nello scoppio; la momentanea cattura di Mureddu e del colonnello Mario Stampacchia, capo dell’ufficio del Primo Aiutante di Campo Generale del Re, da parte di militi della Repubblica sociale italiana, «tra minacce di morte e mitra piantati nella schiena; la scena impressionante e orribile del luogo dell’attentato a distanza di pochi minuti dallo scoppio, tra corpi dei militari tedeschi morti, cittadini catturati, spari di fascisti verso tetti e finestre», rileva Zani, ma anche le angherie e le vessazioni dei giorni successivi, fino al 27 marzo, con il palazzo occupato esclusivamente da fascisti italiani, mentre i tedeschi erano impegnati a via Tasso e alle Fosse Ardeatine. «A fine maggio, su richiesta di Mureddu, il Quirinale torna ad assumere primariamente la funzione di base operativa della resistenza romana, sotto forma di viveri messi a disposizione dei gruppi partigiani» spiega lo storico, che rileva anche l’esistenza di un terzo e importante documento proveniente dall’Archivio storico della Fondazione Museo Ebraico e datato 4 ottobre 1948. Si tratta della copia della relazione presentata dal sottotenente dell’esercito Fernando Segre, nel novembre 1945, al Ministero della Guerra, Fronte clandestino della Resistenza. Segre, patriota col nome di battaglia “Fernando” nei mesi dell’occupazione di Roma, è «ricercato perché di razza ebraica, Ufficiale del Servizio Segreto, con una taglia di L. 50.000». Il suo primo intento è quello di esprimere «un profondo ed imperituro sentimento di riconoscenza» nei confronti di tutti i romani che lo hanno aiutato nella sua pericolosa missione, il cui “contributo fu modesto”, si schermisce Segre: impedire che ufficiali “spinti dalla fame” aderissero alla Rsi, fornire documenti falsi a giovani per evitarne la cattura, alloggiare i patrioti in rifugi sicuri, incitare alla resistenza e fornire informazioni “preziose” alla V Armata americana tram ite il capitano Mario Cernia del Sim, il servizio informazioni militari “in missione speciale a Roma per conto degli alleati”. «I nomi di civili e di militari si susseguono a comporre una coralità che sembra ritagliata sui contenuti di questo volume – aggiunge Zani -. Cittadini romani, come la famiglia Camilli, che lo ospita dal settembre 1943 al luglio 1944, consentendogli anche di incontrarsi spesso con Cernia per predisporre aiuti a partigiani sbandati. L’agente di pubblica sicurezza Nicola Benedizione, che gli comunica l’emissione della taglia di 50.000 lire e per tre volte lo avverte di cambiare rifugio per evitare l’arresto; tramite lui, Segre contatta il professore Salvatore Canalis, detenuto dai fascisti a San Gregorio al Celio, per cercare di farlo fuggire, ma la preparazione viene interrotta dall’attentato di via Rasella e Canalis muore alle Fosse Ardeatine. Il capitano Attilio Simoncini, che gli fornisce informazioni dal Ministero dell’Interno; Il maresciallo dei carabinieri Mario Calabrese, attivissimo nel collegamento informativo tra Segre e Cernia, disponibile a dividere il poco cibo col vicebrigadiere dei carabinieri Mario Vuolo, ospitandolo nella cantina del palazzo dove abita. Il sergente maggiore dell’esercito Raffaele Acquafredda, attivo nel trasferimento di militari al Sud». Attimi, momenti, episodi che si susseguono sullo sfondo di un’Italia lacerata dal conflitto e dalla povertà, ma utili a comprendere le varie forme di resistenza attiva, militare e civile, all’occupazione nazifascista.