Un modello francese di cervello della metà del 19esimo secolo (archivio Ap)
La memoria è tra le facoltà più preziose e fragili insieme che possediamo. Ci lamentiamo di averne poca ed è una catastrofe quando se ne va per qualche malattia. Ma è un peso anche averne troppa, nel momento in cui vorremmo dimenticare dolori e fallimenti. In genere, tradisce spesso, anche coloro che pensano di avere ricordi infallibili. La scienza ci ha permesso di capirne sempre meglio i meccanismi e le disfunzioni. Oggi sappiamo, per esempio, che ogni volta in cui richiamiamo alla mente un episodio, la traccia corrispondente nel cervello viene riscritta, cosa che col passare del tempo contribuisce a farci cambiare inconsapevolmente i dettagli del racconto.
Avere falsi ricordi non è un’esperienza rara. E alcuni ricercatori guidati da Elizabeth Loftus, anni fa, sono riusciti a crearne di specifici nei partecipanti a una serie di esperimenti di psicologia empirica. La tecnica è semplice: si chiede alle persone se si ricordano di quella volta in cui da bambini si erano persi al supermercato e si erano tanto spaventati. Alcuni familiari, complici degli scienziati, confermano il fatto. E alcuni soggetti, maggiormente “malleabili”, a un certo punto dicono che sì, ricordano quello spiacevole evento, e cominciano ad aggiungere particolari che non erano stati citati fino a quel momento.
Potere della suggestione? Non soltanto. Di certo, una prova che la nostra memoria è lungi dall’essere solida e affidabile. Creare falsi ricordi direttamente nel cervello è però una frontiera che non si era mai superata. Quasi impensabile fino a poco tempo fa. Non sappiamo nemmeno con precisione dove i ricordi vengano fisicamente immagazzinati (anche se ne abbiamo un’idea ben più precisa di qualche decennio fa) né come vengano recuperati. Tuttavia, che siano correlati all’attivazione sincrona di gruppi di neuroni in specifiche aree del cervello è ormai assodato. E sulla base delle nuove conoscenze si è provato (con qualche esito positivo) a modulare la memoria, “attenuando” i ricordi negativi ed angosciosi con un farmaco chiamato proprapronolo. Non siamo però in grado di aiutare chi è colpito da malattie neurodegenerative a conservare la memoria minacciata. E per potenziare la capacità di ritenere e ritrovare informazioni le tecniche migliori sono ancora quelle antiche dei loci, ovvero associare un elemento a un luogo fisico, come le stanze della propria casa, e poi ripercorrerle in sequenza.
Detto questo, nei laboratori, con i modelli animali, sui quali è possibile sperimentare ciò che non è lecito fare sugli esseri umani, la ricerca fa passi da gigante. Recentemente, il team del premio Nobel Susumo Tonegawa è riuscito a invertire nei topi la valenza emotiva di un ricordo, ovvero a farlo diventare positivo da negativo e viceversa. Ciò che è stata capace di fare un’équipe dell’Università di Toronto guidata dalla giovane italiana Gisella Vetere si spinge invece alle soglie della fantascienza.
Quella ad esempio del film Total recall, ispirato da un racconto di Philip Dick, in cui Arnold Schwarzenegger ricorre ai servizi di un società capace di impiantare false memorie di viaggi mai compiuti. In questo caso le memorie sono più semplici, ma ugualmente straordinario è il risultato. Nelle cavie, infatti, si è riusciti a creare un’associazione negativa con l’acetofenone (una resina), in modo che l’animale tendesse a evitare un ambiente saturo di quell’odore anche se non l’aveva mai incontrato in precedenza. Di solito, la reazione di evitamento si crea con gli stimoli condizionati e incondizionati. Se un topolino, ogni volta che viene esposto a un certo odore, riceve una scossa alle zampe, impara presto che l’odore precede una somministrazione dolorosa e prova ad allontanarsi. Viceversa, se un odore è associato a una ricompensa, cercherà l’ambiente che è impregnato di quella fragranza. E questo accade nella vita reale, dove si annusano le sostanze diffuse nell’aria.
Ma se si volesse creare una falsa memoria? I neuroscienziati coordinati da Vetere (studi a Roma, specializzazione a Toronto e ora chiamata a Parigi) non partivano da zero. Il sistema olfattivo è ben mappato da tempo e sappiamo che, in buona approssimazione, ogni singolo glo- merulo nel bulbo olfattivo risponde a una specifica sostanza. In altre parole, se si riuscisse ad attivare i neuroni che riconoscono l’acetofenone, l’animale ricorderebbe di averlo sentito anche se non l’ha mai davvero odorato nell’aria. Per fare questo, soccorre l’optogenetica, altra scoperta recentissima e di enorme impatto.
In estrema sintesi, alcune opsine (particolari proteine) contenute nelle alghe si attivano con la luce di diversa lunghezza d’onda. Se si portano queste opsine tramite un virus nei neuroni, è possibile accendere o spegnere le cellule nervose con un impulso luminoso. Detto fatto (la complicazione tecnica è però estrema). Si attiva il glomerulo e il topo 'sente' l’odore (che non c’è). Se gli si dà subito dopo una scossa, si formerà l’associazione. I ricercatori hanno poi messo l’animale nelle condizioni di scegliere tra un ambiente con acetofenone e uno con un altro composto. E, stupore generale, l’animale si è allontanato dal primo, temendo (evidentemente) di subire la scarica elettrica. Ecco la dimostrazione che si era formato un ricordo di qualcosa che era accaduto solo all’interno del cervello. Per completare il virtuosismo sperimentale, i ricercatori hanno quindi ricreato la sensazione dolorosa agendo sulle aree cerebrali che codificano e registrano lo stimolo spiacevole. La procedura (molto più complessa di quanto si possa qui raccontare) si può condurre anche al contrario, con un ricordo piacevole.
In tutto questo, è confermato che l’amigdala, la piccola regione cerebrale a forma di mandorla che si trova in entrambi gli emisferi, è decisiva per i meccanismi della memoria. Infatti, quando se ne blocca l’attività, i ricordi, sia veri sia falsi, si perdono irrimediabilmente. Eccoci quindi pronti per un Total Recall che non è più fantasia ma dati concreti, pubblicati sulla rivista Nature Neuroscience, e subito letti e commentati in tutto il mondo scientifico. «Ci abbiamo lavorato quasi tre anni – racconta Vetere – e il momento più emozionante è stato quando i topi cui avevamo impiantato false memorie si sono avvicinati al comparto con odore di acetofenone. A quel punto abbiamo avuto la certezza che il risultato non era l’effetto della sostanza, come poteva essere nel caso della repulsione, ma dei ricordi creati ex novo nel cervello degli animali».
Che cosa abbiamo imparato da questo eccezionale esperimento? «Che il nostro cervello non ha bisogno di una esperienza esterna per creare una memoria, anche se ovviamente parliamo di un’associazione molto semplice tra uno dato sensoriale e una stimolazione piacevole o dolorosa. In qualche modo, ora sappiamo che i cervelli in una vasca sono possibili».
Il riferimento è all’esperimento mentale reso famoso dal filosofo Hilary Putnam, circa la possibilità che la nostra intera vita sia una simulazione esperita da un cervello immerso in un bagno di sostanze nutrienti e collegato con dei cavi a un computer. Un po’ quello che in seguito sarà descritto nella saga cinematografica di Matrix. E ora? Vetere ha da poco preso la guida di un gruppo di ricerca al prestigioso Espci di Parigi e continuerà la ricerca sulle basi neuronali dei nostri ricordi. Anche se, per ovvi motivi etici, sugli esseri umani studi di questo tipo non si possono fare.
Ridare la vista ai ciechi... Sui topi i primi risultati
L’optogenetica promette davvero di rivoluzionare gli studi sul cervello. Ma anche gli interventi diretti a modificarlo. Il pioniere di questa tecnica, Karl Deisseroth, della Stanford University, è riuscito a indurre "false" percezioni visive nei topi. "False" perché non corrispondono alla realtà esterna, ma sono perfettamente reali nella corteccia visiva dell’animale, in quanto prodotte dalla stessa cascata di processi elettrochimici che è attivata dal vedere con gli occhi. Nello studio in questione (appena pubblicato su "Science"), ai topi venivano mostrate righe verticali e orizzontali, poi gli animali erano "condizionati" a bere alle vista delle righe verticali, ma non di quelle orizzontali. Successivamente, sono stati identificati i neuroni (solo 20 circa) che si accendono dinanzi alle righe verticali. Quelle cellule sono state ingegnerizzate con una nuova proteina sensibile alla luce e poi attivate con una fibra sottilissima grazie a un laser a bassa potenza. In questo modo, quando i topi erano al buio, venivano stimolati i neuroni che riconoscono le righe verticali: il risultato è che i topi andavano a bere.
Non è chiaro se gli animali abbiano una percezione consapevole o meno, resta il fatto che, come è stato commentato, per la prima volta «stiamo suonando il piano della mente». L’ipotesi infatti è quella di raffinare ulteriormente la tecnica per portare le percezioni sensoriali direttamente al cervello quando gli organi esterni, o alcune parti del sistema nervoso, siano danneggiati, come nel caso della cecità. Una start-up californiana, la Second Sight, ha impianto nel cervello di persone non vedenti elettrodi che dovrebbero tradurre le immagini riprese da una telecamera posta vicino agli occhi. I primi test clinici sembrano positivi, anche se il recupero della vista non potrà che essere minimo.