martedì 21 maggio 2024
L’edizione 2028 è stata assegnata a Los Angeles quasi d’autorità, quella del 2032 a Brisbane solo per mancanza di altre candidature: il Cio cerca nuove soluzioni. Non senza pericoli
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La gara inizia sempre almeno otto anni prima, e vince chi resiste sino alla fine. Per organizzare e ospitare le Olimpiadi che debutteranno il prossimo 26 luglio, Toronto (Canada) e Baku (Azerbaigian) manifestarono interesse in principio, ma si ritirarono quasi subito. Restarono in corsa Amburgo, Budapest, Los Angeles, Parigi e Roma, che si era candidata anche per l’edizione del 2020, salvo poi fare marcia indietro per le preoccupazioni espresse dal governo Monti sui costi da affrontare. Il Comitato Olimpico Internazionale alla fine, nel settembre 2017, scelse Parigi. Senza sapere che quella sarebbe stata forse l’ultima assegnazione con tante candidate tra cui scegliere.

Roma, in realtà, per il 2024 si era già sfilata ufficialmente quasi un anno prima della scelta definitiva del Cio. La decisione questa volta fu della giunta del Comune guidata da Virginia Raggi, e del Movimento 5 Stelle. Il motivo? I soldi, sempre quelli: il timore di spenderne troppi, per quelle che la sindaca definì «le Olimpiadi del mattone e degli affari per le lobby dei costruttori». Seguirono polemiche feroci per l’occasione persa. Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, disse con grande convinzione che fu una decisione sbagliata, con Roma che aveva tra l’altro tutte le potenzialità per vincere. E che era stata buttata via la possibilità di ospitare un grande evento che avrebbe fatto bene alla città e al Paese.

Restano i fatti. E quelli dicono che se accogliere i Giochi in casa propria è solo raramente un affare, è altrettanto certo che non c’è più la coda per riuscire ad accaparrarseli. Per assegnare l’edizione successiva a quella di Parigi 2024, tanto per capire come stanno le cose, il Cio si è cautelato decidendo già nel settembre 2017 - quando premiò Parigi - che le Olimpiadi 2028 si disputassero a Los Angeles, arrivata seconda in quella occasione nella lista delle preferite dietro alla capitale francese. Ancora più clamorosa la scelta di Brisbane (Australia) per l’edizione del 2032, che ha vinto per la semplice ragione che è stata l’unica a chiederla e a presentare la propria candidatura.

Ma cosa sta accadendo ai Giochi? Sono la festa planetaria dello sport, li guardano miliardi di persone, suscitano emozioni, macinano record, muovono folle oceaniche e le tv pagano ancora enormi per accaparrarseli. Però nessuno, o quasi, li vuole più ospitare. La tendenza in realtà non è nuova: i Giochi invernali, che hanno fama minore e muovono interessi meno grandi, sono in sofferenza da tempo in fatto di candidature. E per quelli estivi del 1988 Seul vinse su Nagoya, che era l’unica antagonista. Tornando a quelle estive, in passato però Barcellona si presentò per tre quadrienni (anche se non consecutivi) prima di riuscire ad ottenere l’edizione del 1986. E Istanbul addirittura per cinque senza avere mai successo. Madrid ci ha provato per tre volte di fila, e Detroit per otto edizioni invernali (dal 1944 al 1976) prima di farsene una ragione. C’era lotta, competizione: battere una città concorrente era come vincere una medaglia d’oro.

Sono finiti invece i tempi in cui per appoggiare le candidature dei rispettivi Paesi si presentarono personalmente alla sessione del Cio a Singapore il presidente francese Jacques Chirac, la regina di Spagna, l’allora senatrice di New York, Hilary Clinton, e Tony Blair che per non mancare abbandonò il G8 in Scozia con presidenza britannica. Era il 2007 e si decideva la sede per il 2012. Vinse Londra, alla quale solo l’operazione della candidatura costò 150 milioni di dollari.

Ma non è soltanto l’aspetto economico ad annacquare gli entusiasmi, anche perché le nuove procedure di designazione e organizzazione sembrano produrre buoni risultati: Parigi 2024 ad esempio – 10 miliardi di euro la stima finale dei costi - sarà una delle edizioni meno dispendiose tra le ultime. Ad accrescere lo scetticismo nei confronti della mastodontica operazione olimpica in tempi sempre più rispettosi della sostenibilità concorrono l’impatto ambientale delle infrastrutture necessarie, sportive e non. E il timore di imbarcarsi in operazioni che spesso hanno acceso la miccia della corruzione per gli appalti e la gestione, generando una sfiducia preventiva nell’opinione pubblica che più di una volta ha pesato in maniera determinante. Come nel caso di Amburgo, che ha rinunciato a candidarsi per il 2024 dopo un referendum popolare. Oppure Boston e Budapest, dove bastarono rispettivamente una campagna sui social e raccogliere 200 mila firme contrarie per decidere di lasciar perdere.

Il resto lo fa la crescente politicizzazione dello sport, e quindi anche delle Olimpiadi, che mette a nudo tensioni sociali che molte nazioni preferiscono evitare. Lasciando campo libero a Paesi non democratici che hanno riempito il vuoto, accaparrandosi non senza evidenti paradossi le più alte manifestazioni globali dello sport e con esse i suoi messaggi di pace e inclusione, come è successo per le edizioni cinesi di Pechino (2008) e le invernali russe di Sochi (2014), ma anche la Coppa del Mondo di calcio in Qatar nel 2022.

Al calo tendenziale delle candidature è stato proposto di rispondere con l’idea di designare Atene come sede unica e permanente futura, in virtù del valore evocativo e originario di quella città per i Giochi. Soluzione che circola da tempo, ma che non è vista di buon occhio nemmeno dalla stessa Grecia, che ancora si sta riprendendo vent’anni dopo dalla drammatica crisi economica provocata dall’ultima edizione che ha ospitato. Oppure di organizzarle congiuntamente in tre o quattro Paesi, sul modello del calcio che ha diviso tra Corea e Giappone i suoi Mondiali nel 2002, e tra Canada, Messico e Usa quelli che verranno nel 2026.

Ma per capire se le Olimpiadi hanno davvero un futuro occorre fare i conti con la realtà, e la realtà – non solo dello sport – appartiene in gran parte al mondo non occidentale, che ha ancora pochi rappresentanti nella stanza dei bottoni del Cio, la più potente organizzazione non governativa al mondo per la valanga di dollari che può muovere nel nome dei Giochi, guidata da un centinaio di persone cooptate secondo criteri pressoché ignoti. Ma la illimitata disponibilità di denaro, unita alla relativa indifferenza nei confronti delle possibili conseguenze negative che le Olimpiadi lasciano in eredità, fanno pensare che saranno i Paesi arabi i primi a saltare sul business dei Giochi, sfruttando tra l’altro l’inesistente ostacolo dell’eventuale parere popolare che a certe latitudini conta meno di zero, e nemmeno viene sondato. L’aria che tira comunque suggerisce che l’importante non sarà partecipare alle Olimpiadi, e nemmeno vincerle, ma riuscire a farle. Già questo sarà un grande risultato.

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