All’Arena di Verona quest’anno capita quello che capita in tutte le nostre famiglie quando la crisi si fa sentire. Seduti intorno a un tavolo, conti alla mano, si cerca di capire come tirare la cinghia. Su cosa risparmiare. Con dignità. Un vestito nuovo? Magari il prossimo anno. Per ora meglio forse tirare fuori dall’armadio quello di qualche stagione fa: una rinfrescata e fa ancora la sua figura. Ha questo sapore la
Carmen di Georges Bizet che l’altra sera ha inaugurato la stagione lirica dell’Arena di Verona. Cinque titoli tirati fuori dall’armadio e rinfrescati per l’occasione. Perché quest’anno in bilancio una nuova produzione proprio non ci stava. Tanto più che sino ad aprile si temeva che le gradinate dell’Arena quest’anno potessero rimanere vuote dopo che la fondazione era stata messa in liquidazione con decreto ministeriale in seguito alla bocciatura da parte dei lavoratori del piano di risanamento approvato dai sindacati. La minaccia era di chiudere i battenti nonostante le migliaia di biglietti già venduti da tempo a melomani e turisti stranieri. Perché sul tavolo c’erano 4 milioni di buco di bilancio e oltre 17 milioni di debiti accumulati. Questi i conti che si è trovato in mano il commissario straordinario Carlo Fuortes mandato a Verona dal ministero per i Beni e le attività culturali e il turismo. Riunione intorno a un tavolo e, come in famiglia, si cerca di far fronte alla crisi. Sul piano amministrativo, con la riorganizzazione che va avanti non senza preoccupazioni. E sul piano artistico. Ecco che dall’armadio esce un allestimento di
Carmen datato 1995. Mai andato in soffitta, in realtà, perché da allora, da quando Franco Zeffirelli con il titolo di Bizet debuttò nell’anfiteatro lirico, è stato ripreso ben undici volte. Rinfrescato, ripensato più volte, ma sempre fedele all’idea originale di opera in cinemascope. Un kolossal lirico che Zeffirelli (che ha disegnato anche le scene) ha allestito nell’assoluta fedeltà alla partitura facendo rivivere sul palco la Siviglia del libretto di Meilhac e Halévy, proiettato ai lati del palco nella traduzione italiana e inglese, debutto dei sovratitoli nell’anfiteatro. Il kolossal in Arena funziona. Il pubblico lo vuole, lo applaude ripetutamente a scena aperta. Tanto da battere le mani a ritmo di musica – stile
Marcia di Radetzky al concerto di Capodanno di Vienna – sulla sfilata dei
toreador del quarto atto. Roba da far inorridire i puristi. Ma che in Arena è permessa. D’altra parte sotto le stelle di Verona l’opera ritrova il suo spirito popolare: l’altra sera erano in 13mila tra platea e gradinate di pietra. Un tutto esaurito che garantisce ogni sera alle casse della fondazione un incasso di 800mila euro. Una stagione, quella 2016, con 46 se- rate d’opera che per Verona significa 500milioni di euro di indotto. Alberghi affollati in città, sui colli e al lago, ristoranti prenotati prima e dopo l’opera anche se Don Josè pugnala Carmen ben oltre l’1 di notte. La musica, infatti, inizia che il cielo è ancora chiaro e l’ultima nota risuona quando le stelle sono accese da un pezzo. Musica affidata alla bacchetta di Xu Zhong. Certo, fa un certo effetto ascoltare le melodie spagnoleggianti scritte dal francese Bizet da una bacchetta cinese. Ma il pianista e direttore d’orchestra, direttore principale del teatro veronese e guida dell’Opera di Shanghai, offre una lettura vivace e appassionata della partitura. Una lezione di stile e di interpretazione musicale la offre dal palco Luciana D’Intino. Il mez- zosoprano friulano è ancora una volta Carmen, personaggio che disegna intino e introspettivo. Niente eccessi scenici, ma pochi gesti per raccontare una donna che dal sua apparire in scena sembra destinata a soccombere: la Carmen della D’Intino non è una ragazza che danza e salta spensierata per il palco, ma una donna che rivendica, spesso attraverso istanze drammatica- mente sbagliate, la sua libertà. Ecco perché il terzo atto, con la grande riflessione sulla morte, è il fulcro dell’interpretazione della cantante. Bella voce, ma poco cuore per il Don José di Jorge De León. Voce non sempre azzeccata per la scrittura vocale di Escamillo, il
toreador, quella di Dalibor Jenis. Cuore e voce che, invece, non mancano alla Micaela di Ekaterina Bakanova, la più applaudita a fine serata. Quando, spenti musica e luci, restano le preoccupazioni. Quelle dei lavoratori della fondazione che, in base alla riorganizzazione nel segno della flessibilità proposta da Fuortes (e approvata dalle maestranze) prevede che l’Arena (che d’inverno va in scena al Teatro Filarmonico) chiuderà 52 giorni l’anno per i prossimi tre anni, risparmiando così 2,4 milioni di euro ogni stagione, ma anche la ridiscussione dell’integrativo e il premio i risultato legato al pareggio di bilancio. Ma soprattutto quelle dei ballerini, scesi in piazza a volantinare per dire che la chiusura del Corpo di ballo, seppur esclusa per ora dall’accordo, non è del tutto scongiurata. Se ne riparlerà a breve. Per intanto l’Arena spera in un “abito nuovo” per il prossimo anno: la stagione 2017 si dovrebbe aprire con un nuovo allestimento di
Nabucco di Verdi. Conti permettendo.