Un particolare delle tre Grazie di Canova
Canova e l’antico: cosa ovvia, si dirà. Il suo neoclassicismo dovrebbe bastare. Già, ma siamo sicuri che il neoclassicismo sia un prodotto della rilettura moderna dell’antico, come avvenne nel Rinascimento? Nel Quattrocento e già nel tardo Trecento con l’Umanesimo si riscoprirono i testi greci, che venivano comprati in Oriente dai mercanti e rivenduti in Italia dove figure come il monaco Ambrogio Traversari – per il quale l’humanitas era una “Docta Pietas” –, li traducevano in latino, e diventavano nutrimento per la coltivazione esoterica degli antichi in figure come Ficino e Pico. Un veicolo di quei codici fu il Concilio di Firenze, attraverso Bessarione, che fece scoprire i Padri della Chiesa greci, i cappadoci per esempio, prontamente tradotti, alimentando – dopo il lontano scisma – una ricomposizione della teologia.
Forse dovremmo rimeditare sulla dipendenza dei nostri pensieri da questa riscoperta, così come probabilmente non saremmo diventati l’Occidente tecnologico che siamo se i teorici arabi non avessero salvato e trascritto i trattati di Erone sulla meccanica elaborando anche una nuova versione medievale (ma appunto “moderna”) degli antichi automi. Fra la classicità rinascimentale e quella neoclassica corre tuttavia un mare. I neoclassici sono figli degli esoterismi che rielaborano il passato fondendo fantasiosamente egizi e greci, romani e sumeri, come in un mosaico dell’antichità.
Winckelmann fu uno dei padri di questa mentalità: prima ritenne che la scultura antica fosse bianca e pura come in effetti non fu mai; poi che lo stile “neoegizio” di certe opere romane fosse originale, salvo scoprire e teorizzare una sorta di assimilazione e presa di possesso di un Egitto che non esisteva più; Napoleone, con le sue campagne di conquista ed esproprio, e il sogno di un impero mondiale, fecero il resto nell’ottica proprio del Museo come accumulazione e distillato della memoria sotto l’egida dell’Unto della storia. Ma prima di tutto ciò, si deve ricordare che l’esoterismo che costruisce significati e simboli su forme del passato era in fieri negli stili “fantastici” dell’architetto austriaco Fischer von Erlach già nei primi decenni del Settecento e, in quel secolo, trovarono geniali elaborazioni negli incredibili camini di Piranesi o nel massonico Flauto magico di Mozart. Piranesi, le rovine e le carceri. Il neoclassicismo canoviano, le rovine sottoposte a chirurgia plastica attraverso il laser della mente; le tenebrose segrete cancellate nel sogno di leggerezza come chi danza fra i propilei della storia.
Ecco, dunque, che la mostra allestita negli spazi del Museo archeologico di Napoli, a cura di Giuseppe Pavanello (fino al 30 giugno, catalogo Electa), compone attorno a Canova le quinte di un museo totale dell’antichità europea, una sorta di Mastermind di forme e stili del passato più remoto, nel quale lo scultore (e notevolissimo disegnatore) anziché trovarsi pacificato è spinto a esaltare gli ormoni di una ricerca che si allontana moltissimo dagli originali per dare vita a una classicità contemporanea. Chirurgia plastica di crisalidi a cui Canova credeva d’imporre un’anima patinando e “colorando” le sue falene purificate nel marmo persino con rossetti e ciprie che avrebbero dovuto dare allo spettatore una percezione carnale di ciò che risultava ineluttabilmente mentale.
Quando arrivarono oltre vent’anni fa a Venezia i marmi canoviani dell’Ermitage da poco ripuliti ci mettemmo le mani nei capelli (all’epoca erano ancora folti) per come i restauratori russi avessero cancellato l’impronta dello scultore passando quelle sue donne danzanti o, persino la Maddalena penitente (et pour cause) nella centrifuga del “più bianco non si può”. Un danno irreparabile, ma soprattutto una scarsa comprensione dell’artificio canoviano. Se la statua di Amore e Psiche proveniente da San Pietroburgo è il manifesto di questa poetica (la farfalla tenuta per le ali con tutta la delicatezza possibile affinché non muoia), i russi la presero talmente alla lettera che ancora oggi, per quanto il tempo sia il principale contaminatore e restauratore di ciò che l’uomo fa, si percepisce il biancore al fosforo che rendeva all’epoca del restauro “inguardabili” quelle opere.
Canova era collezionista dell’antico, archeologo e conoscitore del passato (si pensi alla valorizzazione del mondo etrusco col quale dialoga nei bozzetti in terracotta o in gesso), aggiornatissimo sugli scavi di Ercolano e Pompei, e aveva anche una sensibilità finissima che rende i suoi disegni quasi delle apparizioni. Tanto i suoi dipinti quanto i monocromi su tela che incarnano la retorica del dolore mediata sugli antichi sarcofagi o l’innocenza infantile che rilegge il tema dell’amore con gli angioletti e le vergini danzanti (a profusione nelle tempere elegantissime, ispirate chiaramente a modelli romani e pompeiani); come pure gli studi al tratto di temi eroici o di figure virili, tutto mostra quanto l’antico in lui operi più come forma mentis che nell’emulazione dello stile.
C’è chi ha avuto il coraggio, avventato, di definire Canova «uno scultore da pisciatoio». Forse intendeva dire anche: cimiteriale. E la morte certamente c’è nei suoi pensieri di marmo. In tempi come i nostri, dove i vespasiani e i bagni pubblici sono ormai scomparsi, potrebbe persino essere un titolo di merito: chi urina e defeca in strada potrebbe farlo con maggior soddisfazione davanti allo stimolante canoviano. Ma non è così. Confondere la volgarità e il kitsch di chi cita il passato a scopi prosaici (tema d’infinite elucubrazioni postmoderne) col “discorso sull’antico” di Canova significa non aver compreso che la sua scultura, come scrisse Argan, era un frutto del metalinguismo, ovvero un anticipo dell’arte concettuale.
Nel 1973, raccogliendo alcuni saggi su arte e letteratura nell’epoca di Canova, Rosario Assunto coniò un titolo- slogan poi usato e abusato dai postmoderni: L’antichità come futuro. È bene considerare che quello stesso slogan in Canova assume una valenza romantica, di sogno e redenzione che lentamente sfumano dall’orizzonte umano; di una bellezza che fugge e di un gesto creativo che, ormai, s’identifica con la vita soltanto all’atto del concepimento, vale a dire nei disegni e nei bozzetti, mentre “in grande” tende a spegnersi in una forma vuota (come le orbite degli occhi in certe sculture antiche). Un’arte che richiede la beauty farm, per ritrovare un frisson carnale. Così le sue “Maddalene penitenti”, le cui carni parlano il linguaggio di Eros frollato a secco nel nichilismo avanzante. Fare grande: da qui forse la passione (delusa) per Napoleone; ma, certo, l’algore canoviano è una ibernazione di quel sentimento vitale con cui Bernini, per esempio, nel suo ermafrodito entra in competizione e ironizza sull’antico, come quello di epoca romana proveniente dall’Ermitage. Ma Bernini sapeva essere mentalmente più disinvolto e libero di quanto non volesse Canova, cosciente forse che l’Europa stava per uscire dall’Ancien régime.