Bonnefoy, nato a Tours, vive a Parigi, dove ha insegnato dagli anni Ottanta al Collège de France. Il 23 giugno compirà novant’anni. E il più grande poeta di lingua francese del nostro tempo e uno dei maggiori del mondo. La sua opera centra il punto di crisi e ardore cruciale del Novecento, il senso di dissoluzione della realtà, a cui Bonnefoy risponde con una poesia che drammaticamente rifonda, facendolo riemergere, lo spazio del mondo reale, la culla originaria dell’uomo. Poesia come conoscenza, per svelamento, "per ardore" in termini luziani, ma conoscenza che rimette il mondo al centro della nostra esperienza. La sua straordinaria opera saggistica sulla letteratura europea e l’arte, in particolare italiana, si sposa alla traduzione di grandissima parte dell’opera di Shakespeare, in cui il poeta vede la rappresentazione piena dell’esistenza, quel teatro del mondo «che fa dell’opera shakespeariana la scena in cui realtà e sogno si compenetrano». Legatissimo all’Italia, alla sua pittura, al suono della sua lingua, Bonnefoy rappresenta al massimo grado la capacità di esplorazione mitico simbolica per un intellettuale novecentesco. Lucidità e vertigine sono le due polarità tra le quali è tesa la sua poesia.
Il mondo ha bisogno della poesia. Credo che in certe epoche sia evidente: i cittadini greci che accorrono in folla alle rappresentazioni delle tragedia di Eschilo, Sofocle, Euripide. I londinesi che affollano i teatri, gente anche analfabeta che paga per assistere alle vicende di Romeo, Giulietta, Amleto, Macbeth. E, in altri contesti, i trovatori, la poesia popolare romanza… Oggi si ha la sensazione che il mondo non manifesti bisogno di poesia. Credo che il bisogno esista, ma non sia percepito, manifesto. È d’accordo? O il bisogno non c’è più?«Il mondo ha bisogno della poesia? Sì, evidentemente, dal momento che la società umana può esistere solo attraverso una decisione originaria, costitutiva che è poi l’essenza stessa della poesia. Noi concepiamo le altre persone non come delle semplici immagini che producono le categorie e i pregiudizi del nostro pensiero concettuale, ma vogliamo incontrarle nel pieno della loro presenza, al massimo della loro libertà: solo a questa condizione ci potrà essere una società viva e non un semplice formicaio. Per accedere così alla presenza dell’altro, bisogna quindi sottrarsi all’autorità dei concetti, in altre parole abbiamo bisogno di una parola poetica che sappia col ritmo stravolgere la concatenazione dei concetti nel discorso. La parola poetica è all’origine del legame sociale».
Lei vive la poesia come riconquista della realtà. È esatto?«Quando le figure dell’Altro che sono solo delle immagini, sono trasgredite dalle parole della poesia, tutto ciò che esiste è allo stesso modo liberato dalla rappresentazione riduttrice che il pensiero analitico produce, solo allora ciò che esiste ricompare ai nostri occhi nella totalità infinita dei suoi aspetti sensibili: è il mondo reale stesso che si manifesta in tutta la sua profondità, è lui che ci viene riconsegnato. È proprio questo infatti che cerco di ottenere da parte mia. Non credo che la poesia sia fatta per produrre e comunicare un significato, per enunciare dei pensieri. Ritengo che il suo lavoro sia quello di consegnare alle parole la capacità di designare, in modo tale che il mondo non sia più semplice oggetto di conoscenza astratta o di sfruttamento tecnologico, ma un luogo in cui potremo vivere il nostro tempo tra le cose raccolte intorno a noi e per noi».
Il poeta fa il suo mestiere, scrive, interroga l’immaginazione. Il mondo risponde?«Sì, risponde il mondo, è proprio ciò che ho appena tentato di dire. La poesia non crea il mondo naturale, ma ne fa un "locus" il più possibile "amoenus" : una terra. Ma stiamo attenti perché se vogliamo questo, bisogna diffidare dell’immaginazione. Quest’ultima, in effetti, non cerca d’incontrare la piena realtà delle cose e degli esseri, ma li sostituisce con rappresentazioni, figure prodotte dalle scelte fatte dai nostri desideri tra i diversi aspetti del mondo nel suo darsi e della vita. L’immaginazione è tanto astratta quanto la scienza. Bisogna che la poesia si liberi da queste fantasticherie e di conseguenza semplifichi i propri desideri».
Lei, come vede se stesso, poeta, in relazione alla realtà del mondo?«Questa semplificazione dei desideri che ho appena citato, è secondo me, il lavoro che i poeti devono compiere. È proprio questo il compito che mi sono posto, quello cioè di vedere nell’atto poetico due grandi aspetti. Da una parte consegnare alla parola la potenza che designa. Dall’altra parte però, approfittare degli insegnamenti che la realtà ci offre quando essa riappare pienamente sotto i nostri occhi, per riflettere ciò che siamo veramente e capire quali tristi desideri di possesso c’impediscono di partecipare maggiormente alla presenza del mondo, alla sua profondità : tutto ciò ci priva dell’esperienza dell’unità in seno alla quale la particolarità di un attimo può dissolversi. La poesia è anche un atto di conoscenza di sé. Lo è attraverso la via della sua scrittura "aperta" che fa risalire nelle nostre parole la lucidità dell’inconscio».
E che ruolo ha in questo senso la percezione della Bellezza? «La bellezza è una delle vie per la conoscenza di sé di cui ho appena detto ed è inerente alla poesia. Quando ci si abbandona all’immaginazione, tendiamo a considerare positive situazioni che altrimenti sarebbero solo delle soddisfazioni simboliche che cerchiamo di dare ai nostri desideri. Credendo di sperimentare la bellezza, in realtà avremo solo prodotto degli schemi che semplificano e sfigurano le realtà che pretendono di essere, queste bellezze sono quindi menzognere. I poeti, come tutti gli altri esseri umani, subiscono evidentemente l’attrazione di questa bellezza di natura fantasmatica, ma, in quanto poeti, essi desiderano di più, e spesso imparano a riconoscere ciò che amo chiamare la bellezza del semplice, quella degli atti universali presenti in noi in potenza, che trascendono i desideri individuali. Resta il fatto che la bellezza vera esiste anche nello sforzo di coloro che non riescono a liberarsi da se stessi, ma cercano di farlo con passione. La bellezza sublime della "Notte" di Michelangelo».
La scienza è entrata in conflitto con la visione poetica del mondo. Ma è un vero conflitto?«Ciò che è contrario alla poesia, nella scienza, è il progetto di coloro che immaginano che essa possa essere una rappresentazione completa e sufficiente del mondo. Quindi allora è il reale nella sua unità che, da sotto ciò che sarebbe meno di una semplice immagine, diventa invisibile ai nostri occhi e smette persino di esistere nella relazione tra noi stessi e i grandi momenti dell’esistenza. È proprio questo il rischio che corrono molti tecnologi che si avvalgono della scienza per produrre e vendere oggetti di consumo. I ricercatori d’analisi sono meno pericolosi, perché il loro lavoro abbraccia una realtà indubbiamente più vasta della loro capacità di capire, come gli astronomi in presenza degli abissi del cielo o i biologi che sondano quelli del corpo».
Esiste una relazione tra Poesia, Bellezza e Speranza? «Sì, la poesia è fondamentalmente speranza, essa vuole pensare che lo stato d’unità con gli altri esseri, che caratterizza la persona umana prima dell’instaurazione del linguaggio, può ristabilirsi in seno alle parole, nella parola che essa intende sostituire al discorso del pensiero concettuale. È attraverso l’esperienza della bellezza che la poesia cerca di verificare se la sua speranza è fondata. La poesia produrrà una bellezza capace di resistere all’esame critico che uno psicoanalista potrebbe farle e dimostrargli che questa bellezza era solo il mascheramento di un desiderio personale? O invece fallirà sempre? È questa la domanda che le procura maggiore ansia, particolarmente ai nostri giorni, in cui molti di noi si lasciano intimidire da metodi d’introspezione ottenebrati da false scienze. Questo stato di ansia ha spinto oggi molti scrittori e artisti sedicenti a disprezzare la bellezza: essi hanno paura della prova a cui la bellezza li chiama».