«Stiamo già scrivendo la sceneggiatura della terza serie di Gomorra che si girerà in autunno anche a Napoli. Non inseriremo personaggi “positivi”: in questo tipo di racconto risulterebbero posticci». Risponde subito con chiarezza lo “story editor” (ovvero il responsabile degli autori della serie) Stefano Bises, una delle firme più importanti della fiction nazionale (Il capo dei capi, Tutti pazzi per amore, Squadra antimafia). Già pronto, anche se non lo ammette, a pensare alla quarta serie sul clan dei Savastano.
Quale metodo di lavoro garantisce il successo di un prodotto come Gomorra? «Insieme a Saviano scriviamo il soggetto della serie, una trentina di pagine, poi si sviluppa la sceneggiatura di ogni singola puntata che riscriviamo sette, otto volte, mescolando fatti veri di camorra e personaggi di finzione. In più facciamo un attento studio del territorio, è un lavoro difficile e accurato».
Però non si rischia di dar voce solo al male? «Noi non abbiamo la pretesa di svolgere una funzione civile. Quella spetta ai libri di Saviano e noi abbiamo la responsabilità di non tradire il suo sguardo. Non vogliamo rappresentare realtà mitiche o seducenti, ma neanche fare moralismi: il nostro occhio resta neutro».
Eppure per molti Ciro e Genny sono diventati eroi. Non trova che sia forte il rischio di emulazione in un pubblico più fragile?«È vero che il male affascina, ma questa serie ha gli anticorpi in se stessa. Fatalmente, grazie anche alla bravura dei nostri attori, i nostri personaggi diventano degli eroi, anzi, degli antieroi che si riempiono d’oro ma conducono vite miserabili. I nostri criminali non sono un esempio, conducono vite che portano solo morte e sofferenza: o muoiono ammazzati o finiscono in carcere. Non riesco a pensare che qualcuno voglia davvero imitarli vedendo la serie. Noi fotografiamo una realtà che purtroppo esiste già. Se avessimo fatto una serie come I Soprano, che sono simpatici e conducono una vita agiata, allora sì, saremmo stati dei mascalzoni».
Ma nella realtà ci sono tante persone che combattono la camorra, uomini di fede, servitori dello Stato, associazioni... Il bene non è funzionale alla vostra serie? «Io soffro quando sento che tante realtà positive ed esemplari si sentono ferite perché non rappresentate. Ma il mio racconto è un altro. E purtroppo non credo che inserire figure positive nelle fiction risulti davvero un contrappunto al male. Nella fiction Il capo dei capi si decise di inserire un poliziotto “buono”. Ma non riusciva a contrastare il potere magnetico di Salvatore Riina e quindi purtroppo risultava sbiadito, non facendo un servizio utile al bene».
Ma non sono possibili altre vie? «Certo. Ho scritto la versione seriale per Rai 1 di La mafia uccide solo d’estate di Pif. Una commedia dove il male viene ridicolizzato. Anni di Gomorra con la sua cupezza hanno inciso anche su di me: ho bisogno di leggerezza».