È un protagonista della Christian Music, i suoi concerti – con pop, rock e funky che parlano di fede vissuta – riempiono stadi, palasport e piazze in Italia e negli angoli più sperduti del mondo. Roberto Bignoli è famoso negli Usa, in America Latina, in Polonia, ha vinto cinque Unity Awards (i premi internazionali assegnati dall’United Catholic Music and Video Association). Lo hanno applaudito in India, nel Nepal e a Panama, è stato ospite di tre Gmg. La sua canzone più popolare,
Ballata per Maria composta durante un pellegrinaggio, è la sigla che apre e chiude ogni giorno le trasmissioni di Radio Maria. Ora, dopo dodici album e oltre trent’anni di attività, Roberto Bignoli si racconta non più soltanto da un palco, con la chitarra in mano, ma anche attraverso un libro,
Il mio cuore canta (vedi box), una “porta spalancata” su un’esistenza segnata dal dolore e dalla speranza. Colpito a un anno dalla poliomelite e cresciuto in un collegio Don Gnocchi, Bignoli appena diciottenne si “butta” in strada passando attraverso esperienze politiche ed umane “estreme”, che lo portano ai margini della società e persino in carcere. Ma nel 1984, a ventott’anni, ecco l’incontro che gli cambia la vita, seguito da un “provvidenziale” viaggio a Medjugorje. Il prologo del libro sembra mettere subito in chiaro, però, che lui «non è un convertito». «Perché conversione è una parola grossa – spiega – e io non ho raggiunto l’obiettivo della santità, un cammino molto lungo e pieno di contraddizioni: ho solo preso coscienza del senso della vita, con coraggio e un pizzico di follia, ho creduto fino in fondo nella Provvidenza».
È una strada che percorre solo? «No, in un cammino di fede devi essere sempre accompagnato da un’amicizia. Io ero un isolato, preso dallo sconforto per la mia condizione. La mia vita era un grande vuoto. Avevo puntato tutto sulla canzone d’autore lavorando sodo. Ma questo non mi faceva felice. Poi ho incontrato dei ragazzi diVarese che mi hanno provocato: “Lascia le stampelle e vieni con noi...”. Gli incontri non sono mai casuali. Ti bussano alla porta e dici: apro? È stata una sfida per me. Loro mi hanno accolto con un sorriso, con semplicità, mi hanno invitato a un pellegrinaggio a Medjugorje e così ho scoperto che c’è un mondo pulito, sano... Sono rimasto affascinato dalla bellezza del credere in Dio, ho trovato una famiglia. Allora ho smesso di essere il “cantante disabile”, lo sfortunato di turno. Questa, per me, si chiama grazia».
Ed è stata una svolta anche per i testi delle sue canzoni, che hanno cominciato ad avere un contenuto religioso... «Certo. Io mi sono formato sul genere cantautoriale degli anni ’70 e ’80, il mio punto di riferimento è sempre stato il poeta Fabrizio De André. Mi hanno influenzato anche i francesi Brel e Brassens e poi Jimmy Hendrix, Deep Purple, Pink Floyd, Bruce Springsteen. Tutto questo bagaglio musicale è rimasto, ma è cambiato il modo di guardare la realtà e quindi di raccontarla: canto la mia storia».
È difficile essere un “cantante cristiano”? «La Christian Music affonda le sue radici nel gospel, è nata cinquant’anni fa in America dalla cultura protestante dove ancora oggi è un fenomeno popolare, non bigotto, con un suo mercato e un fatturato plurimiliardario. In Italia la mentalità è diversa, spesso siamo costretti a fare i concerti nelle sale parrocchiali perché non ci sono altri spazi disponibili, ma io ho scelto questa strada, vivo e canto per la mia fede e non me ne vergogno. Sono felice così».
Chi sono, oltre a lei, gli altri esponenti di questo genere musicale? «Uno dei più popolari è l’inglese Sal Solo, già vocalist dei Rockets, ex leader dei Classic Noveaux. Ha avuto un’esperienza molto simile alla mia. Poi c’è Stan Fortuna, un frate francescano del Bronx: è un rapper. Ma l’elenco è lungo: Pollyanna Dorough, l’irlandese Dana, Denis Grady, cantatutore country...»
E in Italia? «Ci sono artisti straordinari. Ma voglio ricordare soprattutto Claudio Chieffo, il “padre” di tutti noi. Un vero e grande artista che fin dall’inizio ha scelto di interpretare solo musica scritta da lui e ispirata alla sua esperienza cristiana. È sempre stato fedele a se stesso e alla sua vocazione. Molti altri poi hanno seguito il suo esempio: operai, insegnanti, professionisti, e anche sacerdoti, religiosi, suore».
Che ne pensa dei talent show? «Ai ragazzi piacciono. Devono tentare, sognare. Ma sono macchine delle illusioni, non servono a niente. Tranne che per qualcuno che spicca il volo, rischiando però di durare una sola stagione. I talent show sono la rovina della musica, almeno da noi. In Italia tutto sembra ingessato e falsificato, in America e in Australia, invece, dove la maggior parte di questi format televisivi sono nati, non esiste il culto dell’immagine. Lì, come in altri Paesi anglosassoni, il talento non ha un aspetto fisico. Pensate al successo di Susan Boyle».