giovedì 4 settembre 2014
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Cent’anni fa, il 3 settembre 1914, a Pio X succedeva - con il nome di Benedetto XV - Giacomo Della Chiesa. Sessant’anni, da sette alla guida di Bologna, una lunga esperienza diplomatica alle spalle e sette anni - dal 1901 al 1907- come sostituto della Segreteria di Stato all’epoca di Mariano Rampolla del Tindaro, fu lui, cardinale da pochi mesi, ad ottenere i trentotto voti necessari in quel Conclave raccontato nel diario del cardinale Friedrich Piffl. Cominciato il 31 agosto, a un mese dall’inizio della "Grande Guerra", la Sistina aveva accolto cardinali dei Paesi coinvolti e non nel conflitto: francesi, austroungarici, inglesi, un belga, un olandese, un latinoamericano, trentun porporati della neutrale Italia, cinque spagnoli (otto invece gli assenti compresi tre nordamericani che arrivarono a Roma a papa eletto). E aveva visto convergere gli elettori sul profilo esile, ma determinato di Della Chiesa. Con tutte le carte in regola richieste anche da quel periodo funesto. Nel nuovo Conclave, infatti, la realtà della guerra era già ben presente e non a caso il neo Pontefice mise subito in cima al suo programma pastorale, fatto di evangelizzazione e diplomazia, magistero e carità, il proposito di considerare la pace come maggior preoccupazione: fermamente deciso «a nulla trascurare di quanto potrebbe contribuire a porre un rapido termine a questa calamità». «Calamità»: la parola adatta. E, all’orizzonte, altri drammi dopo che il governo italiano, firmato un trattato segreto con Inghilterra, Francia e Russia, s’era impegnato a partecipare alla guerra contro l’Austria, chiedendo in cambio il Trentino, l’Alto Adige, Gorizia, Trieste, l’Istria, isole della Dalmazia, Valona e il Dodecaneso, nonché l’esclusione della Santa Sede dalla futura Conferenza di pace (temendo una ridiscussione delle leggi delle "guarentigie" e della sua dipendenza politica dallo Stato italiano). Così nel maggio 1915, denunciato il trattato della Triplice Alleanza, le manifestazioni interventiste culminarono nella dichiarazione di guerra all’Austria del governo Salandra. Spazzate via le speranze per il futuro, al culmine della «belle epoque», al vecchio continente veniva riservato il più grande massacro della sua storia: una carneficina che appare facile attribuire all’assassinio dell’arciduca d’Austria a Sarajevo, esito - piuttosto - di un intreccio di terrorismo nichilista e ambizioni imperiali, opportunismo diplomatico e miopia politica. Una miscela esplosiva che portò l’Europa a stravolgere il suo assetto geopolitico anche in seguito a dinamiche in parte ancora sconosciute. E «Il Papa sconosciuto», titola l’unica biografia circolata un po’ da noi, dedicata da John Pollard a papa Della Chiesa (San Paolo), alla quale aggiungere almeno «The life of Benedict XV» di Walter Peters. Senza dimenticare «Papa Benedetto XV. La Chiesa, la grande guerra, la pace (1914-1922)» di Antonio Scottà (Edizioni di Storia e Letteratura) o il saggio di Nando Simonetti «Principi di teologia della pace nel magistero di Benedetto XV» (Porziuncola). Ed è per soffermarsi su questi principi che vale la pena ricordare il secolo che ci separa dall’elezione di Benedetto XV. Principi che stanno dietro i suoi ripetuti interventi. Come la richiesta, già fatta dal predecessore, di pregare per la cessazione del conflitto (settembre 1914). Come le precise istruzioni fatte giungere in segreto ai singoli ordinari, per evitare ogni iniziativa che potesse interpretarsi come adesione pubblica della Chiesa italiana alla guerra. Come i messaggi destinati ad esprimere il suo dolore innanzi al «tremendo fantasma della guerra» con i disordini da eliminare «richiamando in vigore i princìpi del cristianesimo» (novembre 1914). Come i provvedimenti da lui presi per bloccare due volte - nel 1915 e 1916 - la diffusione di testi dell’Azione cattolica italiana troppo patriottici, non potendo la Santa Sede auspicare la vittoria di un popolo cattolico su un altro ugualmente cattolico. Insomma, davvero costanti - e in tutto il suo pontificato - furono i tentativi prima per evitare l’estensione della guerra, poi per affrettarne la fine. Scongiurando le potenze belligeranti per trovare modi diversi dai bombardamenti per riaffermare diritti lesi. Attivando azioni umanitarie, assistenza materiale e spirituale dei prigionieri, scambi e rimpatri. Invocando la cessazione delle deportazioni. Implorando tregue e negoziati. Non a caso quel poco di memoria che oggi viene riservata a Benedetto XV resta legata (pur non esaurendone gli altri impegni: dal rinnovamento della Chiesa all’azione missionaria, alla fine del temporalismo), al giudizio sull’«inutile strage» nella celebre Nota dell’agosto 1917. Resistono insomma i segni della sua lotta contro il militarismo, contro il nazionalismo, mentre altri non desideravano che consacrare soldati italiani al Sacro Cuore. E, tutto questo, avendo subito capito che la guerra era «un suicidio dell’Europa» (4 marzo 1916), «la più tenebrosa tragedia della follia umana» (4 dicembre 1916). È vero, forse alla base di questi appelli inascoltati, insieme ai «principi cristiani» invocati dal Pontefice, non va dimenticato il bagaglio culturale intransigente con il quale episcopati, clero, cattolici di vari Paesi, si trovarono ad affrontare il conflitto (ancorato al castigo divino per la corruzione della società moderna presuntamente anticristiana). E non a caso rispetto alla neutralità papale, le Chiese nazionali appoggiarono i governi degli Stati di appartenenza. Tuttavia è proprio con Benedetto XV che si volta pagina, che si incrinano le strutture portanti della teoria della "guerra giusta". Innanzi a distruzioni che sgretolavano qualsiasi proporzione tra il mezzo (il ricorso alle armi) e il fine (il ristabilimento di un giusto ordine tra gli uomini), era ancora moralmente giustificabile la pratica bellica? Come ha scritto Daniele Menozzi nel suo «Chiesa, pace e guerra nel Novecento» (Il Mulino) «si può dubitare che il Pontefice intendesse portare fino a queste conseguenze la sua dichiarazione dell’inutilità della conflagrazione; ma la questione era stata sollevata». E da quel momento la lezione del Papa al quale gli armeni ,riconoscenti, hanno eretto un monumento davanti a Santo Spirito a Istanbul, è stata raccolta dai successori.
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