«Questo va messo da parte per gli zii di Aleppo - disse mamma Vittoria afferrando il pacco e portando in dispensa davanti ai nostri occhi delusi il meraviglioso pandoro che ogni anno il professor Lenarduzzi, un collega senza figli, regalava a papà per noi bambini - e questi marrons glacés (nel frattempo toglieva le manine golose di Carletto dal grande vassoio dorato) bisogna richiuderli subito e avvolgerli bene, perché sono la passione di zio Rupen di Damasco, che quest’anno verrà anche lui per Natale, ma dopo Capodanno. Non vorrete mica fargli un dispetto, con tutto quello che vi porta lui, delinquenti?».
Con la mitica parola 'delinquenti' ogni protesta veniva messa a tacere, per forza. Non sarebbe stato saggio insistere con mamma Vittoria, o peggio ancora - provare a penetrare di nascosto in dispensa. Naturalmente lei alludeva al Natale armeno, che arriva il 6 gennaio, insieme all’Epifania. Questa era ogni anno la grande vanteria di cui ci facevamo belli coi nostri compagni di scuola: siccome noi eravamo mezzo armeni e mezzo italiani, potevamo prendere il meglio dagli uni e dagli altri, festeggiare per tutti i quindici giorni di vacanza e ricevere regali dal 24 dicembre in poi, fino alla bellissima festa del 6 gennaio, in cui si andava a Venezia, alla Messa grande all’isola di San Lazzaro degli Armeni, in mezzo alla laguna. Non so perché, ma nei miei ricordi in quel giorno il sole splende sempre, un sole freddo di gennaio, lucido in cielo come un disegno infantile.
Era una giornata piena di delizie. Si cominciava partendo da Padova in gran confusione, come sempre: alcuni bambini stipati nella macchina, altri (soprattutto quelli che soffrivano di mal d’auto, chiamati 'i vomitanti') affidati a una zia che pazientemente si offriva per portarli a Venezia col treno. L’appuntamento era a Piazzale Roma, e da lì ci si muoveva tutti insieme in gran fretta verso San Marco col vaporetto, e poi a San Zaccaria, da dove partiva il battello per San Lazzaro. Ma prima, in qualche punto dietro San Marco, c’era la prima tappa sognata da mesi, il carrettino dei caramèi , la frutta infilata su uno stecco e tuffata nello zucchero filato, che tutti adoravamo. Erano allineati dentro una cassettina rettangolare con sopra un coperchio di vetro che si apriva, e brillavano al sole: acini d’uva, castagne, peretti... nessuno riusciva a staccarci di là senza accontentarci, ed era un gran sventolare di fazzoletti, poi, per pulirci sommariamente le mani, che non fossero appiccicaticce quando, arrivati all’isola, avremmo dovuto correttamente inchinarci all’abate e porgergli la mano.
All’imbarcadero trovavamo tanta altra gente, altri bambini urlanti, altre zie, nonni, parenti di ogni età: erano gli armeni che si ritrovavano e facevano famiglia. Pochi e dispersi sono, in Italia; ma Venezia, da secoli, fin dai tempi più antichi della Repubblica, è stata per loro un approdo sicuro. E l’isola, donata dal doge al monaco Mechitar di Sebaste e ai suoi frati nel 1717, rappresentava e rappresenta ancor oggi un motivo di orgoglio, il faro di cultura e di scienza che aveva conservato quel che restava della loro antichissima civiltà dopo l’immensa tragedia del genocidio. In quei giorni di Natale i sopravvissuti, sulle cui spalle ancora pesavano terribili ricordi e ferite incancellabili, rialzavano la testa, si sentivano protetti, si riaprivano al sorriso e alla fiducia in mezzo ad altri come loro, alle famiglie nuove e ai loro bambini. Ritrovavano il coraggio che le difficoltà del quotidiano tendevano a piegare, e la serenità di stare insieme condividendo le tracce di un vivere comune annientato, liete memorie e la gioia del cibo condiviso. La Messa era suggestiva, emozionante, piena di suoni e di colori. Le musiche straordinarie, l’odore acuto di incenso, la tenda misteriosa, tutta intessuta di fili d’oro, che ogni tanto velava l’altare, i movimenti solenni e misurati dell’abate e dei celebranti nelle vesti maestose, i loro inchini che sembravano incontrarsi nell’aria, le voci forti e armoniose che accompagnavano con i canti della millenaria tradizione ogni momento della cerimonia, componevano un’armonia che è difficile descrivere, ma che faceva piombare tutti (compresi i bambini) in una specie di sogno, di fascinazione incantata.
Ricordo ancora l’attesa nervosa per il canto della Comunione, il famoso Der Voghormià (Signore, abbi pietà), così struggente e potente che, diceva zia Henriette, «sembra la voce di tutti i nostri morti, come un fiume di dolore che viene offerto a Dio», e il purissimo elevarsi del Sanctus, cantato da un solista che raggiungeva note sempre più alte, e mi pareva un filo di cristallo su cui passavano onde sonore sempre più forti, che mi causavano un’ansia deliziosa. E poi la comunione con il pezzetto di pane intinto nel vino, e il grande crocifisso davanti al quale ci si doveva inginocchiare prima di baciarlo, e ogni volta un chierichetto serissimo ci passava sopra con impegno un fazzoletto ricamato. Poi, finita la messa, veniva per tutti il momento del pane sottile, fragrante, con un po’ di marmellata di rose sopra (per noi con un bicchier d’acqua, solo per i grandi accompagnato dal caffè), e dell’inchino davanti all’abate Serapione e alla sua maestosa barba pepe-e-sale («incredibile come non diventi mai bianca, per quanto vecchio lui sia. Forse è un miracolo di santità», bofonchiava mio padre strizzandomi l’occhio).
Infine, alla sera, al caldo, eccoci riuniti davanti al grande albero nella casa di Padova. Gli zii di Siria si rilassavano bevendo tè dolce e spazzolando il pandoro e i marrons glacés, commossi perché la mamma aveva pensato a loro, mentre tutti noi seduti in cerchio aprivamo i nostri pacchetti, pieni di assortite meraviglie orientali: sciarpe di seta di Damasco, dolcetti di zucchero dai sapori misteriosi variamente colorati, scatole di halvà , pistacchi e semini. E una felicità ci avvolgeva piano piano, in cui tutto per un momento sembrava possibile: la famiglia ricongiunta, le ombre del passato dissipate, le pianure dorate d’Anatolia...