mercoledì 25 novembre 2020
La terra e i suoi abitanti Il nostro sapere ha raggiunto vette molto alte e siamo diventati causa degli sviluppi fisici recenti. Secondo alcuni scienziati tutto iniziò nel 1610
Nell'antropocene gli umani sono prepotenti geologici

Chiostri

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Chissà se quando pensava le idee di nima, mondo e Dio Immanuel Kant sospettava che la Drosophila Melanogaster avrebbe smentito la sua disciplina filosofica. Secondo il pensatore di Königsberg, l’esigenza di totalità spinge l’essere umano a indagini che vanno troppo oltre l’esperienza e i presupposti che rendono possibile la conoscenza. Eppure, a chi è incline alla scienza basta il moscerino della frutta per superare la paura della totalità: da questo piccolo artropode gli studiosi del mondo vivente hanno tratto conoscenze utili a comprendere forme di vita ben più complesse e generali. Ma la scienza odierna, frammentata negli specialismi, in che senso è capace di visioni globali? Il modo in cui lo scienziato indaga patterns biologici generali partendo da piccoli organismi è lo spunto per capire come la conoscenza si trasmette a lungo termine, si trasforma e modella la società. Lo sostiene lo storico della scienza Jurgen Renn ( The Evolution of Knowledge. Rethinking science for the Anthropocene, Princeton & Oxford 2020), direttore del Dipartimento I del Max Planck Institute for the History of Science di Berlino. Secondo Renn, il pensiero umano ha una natura intrinsecamente storica: cambia mentre produce conoscenze, conosce mentre modifica i suoi contenuti. Mediante le sue facoltà conoscitive l’essere umano ha prodotto oggetti concreti che hanno a loro volta ampliato le sue conoscenze, dai primi ominidi ad oggi. Negli ultimi quattro secoli, in particolare, scienza e tecnologia hanno reso la presenza umana così impattante da farne una forza geologica che ha segnato il pianeta. Se uomo e pianeta sono tanto strettamente connessi, più che la conoscenza formulata da pochi soggetti pensanti, conta capire che le strutture conoscitive e i loro presupposti evolvono e permettono cambiamenti radicali fuori e dentro le società. La Rivoluzione industriale ha modificato l’assetto planetario, concretizzando il mechanical thinkingpremoderno e moderno: con perizia genetica e profonda cognizione,

Renn si sofferma a lungo su questo e altri passaggi epocali nella scienza. La conoscenza evolve, cambiano le sue dinamiche, cambiano i suoi presupposti. Facciamo un esempio: quando si è smesso di pensare che l’interazione tra i corpi fosse dipendente dal loro contatto diretto, solo allora il comportamento di una bussola ha smesso di sembrare misterioso e l’esperienza di questo piccolo oggetto è diventata utile per pensare nuovi sistemi di forze, che dalla meccanica classica hanno portato alla teoria della relatività generale. Scoperte e idee sono state poi messe in circolo e le acquisizioni di una parte del mondo sono diventate un capitale disseminato in altre parti del mondo. A tratti viene menzionato il ruolo delle religioni in questo processo, anche se poco rilievo viene dato alle missioni religiose, che invece hanno contribuito profondamente alla globalizza- zione della scienza, specie in estremo oriente e nella mesoamerica. Contro l’allarme distopico e apocalittico che l’uomo dell’Antropocene (da anthropos, uomo e kainos, recente) è destinato a distruggere il pianeta e se stesso, si alza il grido della ragione: come approfittare delle opportunità offerte dall’umano conoscere? È possibile coglierne processi e regole, non solo per sopravvivere ai cambiamenti epocali in corso, ma anche per progettare un futuro ospitale per l’umanità? Renn tratteggia un quadro di insieme destreggiandosi tra sfondi concettuali e linee di cambiamento lungo le quali nel tempo emergono i sistemi scientifici e tecnologici. Ne risulta l’idea di conoscenza come network, come epistemologia globale. La mente va allora a questi mesi di pandemia, mentre le conoscenze scientifiche rimbalzano da ogni parte del mondo: la scienza, nel bene e nel male, è frutto della trasmissione, condivisione e disseminazione della conoscenza. Ed è tangibile a tutti come la conoscenza sia una forza che modifica la storia e la realtà. Tanto più oggi che le reti di conoscenza del pianeta diventando reti di informazione digitale: i saperi a priori si decontestualizzano con ricadute spesso imprevedibili nelle diverse culture locali. Nodi concettuali, reti di trasmissioni, saperi di sfondo, interazioni tra discipline, riscontro sociale e politico: negli ultimi quattro secoli scienza e tecnologia si sono nutrite di questa fitta architettura di elementi.

L’Antropocene ha bisogno di una conoscenza consapevole di questa complessità: sulla pratica storica deve emergere l’ambizione filosofica di una teoria storica della conoscenza. Centrale nelle pagine di Renn la convinzione che stiamo vivendo un’epoca di svolta, in cui la conoscenza umana dipende dalla relazione profonda con la materia molto più che in passato. Questa preoccupazione per un futuro plasmato dal grande potere della mente umana era espressa dal geochimico russo Vladimir I. Vernadskij che parlava circa un secolo fa di noosfera ( nous, mente), termine usato anche dal gesuita Pierre Teilhard de Chardin. Scienza e filosofia si congiungono intorno all’ambizione di comprendere la totalità del tempo e dello spazio planetario. La scienza fa da pigmalione all’aspirazione filosofica alla totalità e, preso atto che l’umanità ha modificato l’ecosistema planetario, si sforza di capire in che modo questo sia avvenuto. Il sistema Terra e la sua storia geologica antica e recente sono al centro di un altro importante volume, scritto dagli scienziati e accademici inglesi dell’University College di Londra Simon L. Lewis e Mark A. Maslin, Il Pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene (Einaudi, pagine 348, euro 32). Stavolta l’Antropocene è l’oggetto indagato. Fu il Nobel Paul Crutzen, uno dei massimi esperti di chimica dell’atmosfera, a rivitalizzare questo termine nel 2000, durante una conferenza in Messico. Il termine era stato usato anche dal biologo ed ecologista Eugene F. Stoermer, per dire che l’essere umano è diventato una superpotenza geologica paragonabile all’impatto di meteoriti o all’eruzione di megavulcani. L’Antropocene è erede dell’“Antropozoico” di cui parlò per primo il sacerdote Antonio Stoppani nel suo Corso di geologia del 1873. Non è un caso, notano gli autori, se l’idea di dare un inizio geologico all’epoca dell’uomo sia stata coltivata da scienziati profondamente religiosi: Homo sapiens meritava un posto all’apice della vita sulla Terra. Le condizioni planetarie messe in scena circa 10.000 anni fa con l’avvento dell’agricoltura sono ormai modificate e rese estremamente variabili.

Quando collocare il golden spike che avrebbe segnato la transizione all’Antropocene? Gli studiosi non sono unanimi e i criteri di periodizzazione vanno dalla quantità di anidride carbonica registrata nell’atmosfera ad aspetti peculiari nel ciclo biogeochimico del pianeta. Per molti motivi, gli autori individuano il 1610, anno in cui una carota di ghiaccio antartico raggiunse il livello minimo e le migrazioni degli europei causarono varie pandemie. La sfida intellettuale è aperta ad affrontare il dominio dell’intera storia del pianeta e trovare una data al recente passato, affinché storia geologica del pianeta e storia delle società umane siano inglobate in un’unica sintesi, un’unica grande vicenda. Protagonista: il pianeta Terra e i suoi abitanti. A tale scopo non vale giustapporre conoscenze separate, ma occorrono conoscenze irrelate: su piste storiche e scientifiche, intrecciate da incursioni episodiche di testimoni autorevoli come C. Fourier, E. Burke, R. Manning, Lewis e Maslin offrono uno sguardo profondo sull’Antropocene scientifico. Certo, però, l’idea di Antropocene, dicono gli autori, è «tanto immensa da poter essere snervante ». Se l’obiettivo è ambizioso, sono singolari le proposte messe in atto. Rinaturalizzare le pratiche umane? Confidare nella denatalità? Le ultime pagine del saggio di Lewis e Maslin abbozzano queste idee invitando la politica a farsene carico. Eppure non si tiene conto di alcuni aspetti: per esempio, che la denatalità invecchia la popolazione indebolendone la forza produttiva sia intellettuale. Lascia perplessi che la superpotenza geologica umana possa sopravvivere con la propria autolimitazione, o che a guidare l’evoluzione del pianeta debba essere un numero minore di terrestri. Aver contezza, grazie a Renn, del mirabile sforzo conoscitivo compiuto dall’essere umano, fa sperare in altre vie di uscita, a partire dal rispetto delle risorse, l’investimento sulle energie pulite, la ridistribuzione delle ricchezze, l’abolizione del digital divide.

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