Il lavoro dei soccorritori dopo la strage di Bologna del 2 agosto 1980 - Ansa
E se tanto parlare di “misteri d’Italia” finisse per oscurare verità faticosamente raggiunte? Lo fa pensare la recente sentenza che ha condannato Paolo Bellini – grazie anche alla coraggiosa testimonianza della moglie e al forte senso civile della figlia – quale esecutore, insieme a quelli già individuati, della più grave strage della storia repubblicana: quella di Bologna del 2 agosto 1980.
Questa sentenza è importante non per le novità evidenziate, ma perché ha confermato, integrandola con ulteriori elementi, una verità messa progressivamente in luce da quarantadue anni di indagini, dall’impegno dell’Associazione parenti delle vittime, da un eccezionale sforzo di conservazione e analisi dei documenti, da circa venti sentenze di vario grado: la strage di Bologna è stata una strage fascista. Lo aveva immediatamente riconosciuto il presidente del Consiglio dell’epoca, Francesco Cossiga, ma successivamente lo stesso Cossiga affermò che bisognava seguire una pista internazionale (palestinese) salvo poi, a distanza di tempo, ammettere che era stato ingannato dai servizi segreti.
Per negare la matrice fascista si è infatti messa in moto, da subito, una poderosa macchina di disinformazione, con risultati fortunatamente sempre più scarsi, ma che continua a operare. Ora, questa sentenza illumina con una luce ancora più forte un quadro sorprendente chiaro della strage più grave in quella che continuiamo a chiamare, con colpevole rassegnazione, l’Italia dei misteri.
Anche se bisogna attendere le motivazioni e gli ulteriori gradi di giudizio, la sentenza appare chiarificatrice anzitutto per quanto riguarda l’insieme degli esecutori: Mambro, Fioravanti, Ciavardini (condannati in via definitiva), Cavallini e Bellini (condannati in primo grado). I primi due e Cavallini erano dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar), Ciavardini di Terza posizione e Bellini di Avanguardia nazionale. Non si tratta di generica “manovalanza fascista”. Il loro diretto coinvolgimento nella strage certifica che i tre principali gruppi neofascisti dell’epoca operarono insieme per realizzare quell’azione agghiacciante.
Non è vero, insomma, che la galassia neofascista – diversa dal fascismo tradizionale – fosse allora composta da tanti gruppi spontanei di romantici cavalieri dell’ideale nero. Al di là di una facciata abilmente confusa, il neofascismo italiano di fine anni Settanta era saldamente unito in un’unica rete e operava organicamente per destabilizzare l’Italia attraverso l’uccisione di tanti innocenti. La verità sugli esecutori illumina anche quella sui mandanti. A finanziare i primi fu Licio Gelli. Apparentemente nulla di nuovo: il nome del “burattinaio” è da tempo associato alla strage, ma solo per la sua azione di depistaggio verso un’inesistente “pista internazionale”. Ora invece risulta chiaro che fu lui a volere quei morti.
Gelli, che non ha mai nascosto i suoi sentimenti fascisti, non è stato quello sconclusionato tessitore di trame politiche senza esiti concreti che molti hanno dipinto. Aveva ragione Tina Anselmi che denunciò – isolata e disprezzata – l’estrema gravità della P2, attribuendole anche una diretta responsabilità riguardo alla strage del treno Italicus nel 1974.
Da questa sentenza, inoltre, emergono le complicità con Gelli non solo di Ortolani, ma anche di Federico Umberto D’Amato – ex dirigente del Ministero dell’Interno – e del senatore Mario Tedeschi, parlamentare del Movimento sociale e direttore del noto settimanale scandalistico “Il Borghese” (famoso per aver ridicolizzato La Pira e, di fatto, boicottato i tentativi italiani per favorire la pace in Vietnam).
La strage di Bologna, dunque, è stata un prodotto organico del neofascismo italiano. Di fronte a questa verità, la politica italiana non ha nulla da dire? La domanda riguarda anzitutto le forze storicamente più vicine all’eredità neofascista. Ignorando le sentenze definitive nei confronti di Mambro e Fioravanti e Ciavardini, nel 2020 Giorgia Meloni ha parlato di quarant’anni senza giustizia, rilanciando implicitamente la pista internazionale, già utilizzata da Gelli e dai suoi complici per coprire la matrice neofascista. Nel 2021 Meloni ha poi insistito nuovamente su “ombre e depistaggi” che impedirebbero “verità e giustizia”, nonostante che la condanna in primo grado di Cavallini avesse nel frattempo confermato di nuovo quella matrice. In un’altra occasione, nel 2014, aveva negato qualunque legame tra i Nar e la «storia della destra italiana» ma il coinvolgimento di Mario Tedeschi nella strage di Bologna la smentisce.
Le acquisizioni giudiziarie suscitano interrogativi sull’insistenza, anche da parte di storici, sul carattere internazionale o complottista di fatti e mandanti sui quali è tempo che tutti facciano i conti
Paradossalmente, l’insistenza sui depistaggi può diventare un modo per depistare. La mancanza di chiarezza sulla strage di Bologna non riguarda però solo Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia, ma anche gran parte della politica italiana che ha smarrito da tempo la priorità di un rifiuto – morale prima ancora che politico – del fascismo, come mostra anche la tiepida reazione nei confronti delle violenze di pochi mesi fa di Casa Pound e di Forza nuova (che fine hanno fatto le richieste di sciogliere queste due formazioni?). È un problema di grande attualità oggi, mentre è in corso un’aggressione all’Ucraina scatenata dalla Russia di Putin che ha rappresentato negli ultimi anni il principale riferimento del fascismo internazionale, con cui hanno stabilito stretti collegamenti importanti forze politiche europee come il Rassemblement national di Marine Le Pen. Pure in Italia diverse personalità e forze politiche di primo piano hanno stabilito stretti rapporti con Putin, con il suo governo e il suo partito, Russia unita, e non hanno ancora preso chiaramente le distanze.
Le ambiguità della politica sono favorite anche dai limiti della riflessione culturale. La sentenza di Bologna pone diverse domande agli storici. Spinge ad esempio a interrogarsi sulla tendenza a collocare la “strategia della tensione” tra anni Sessanta e primi anni Settanta, facendola concludere nel 1974. Come valutare, allora, la continuità di mandanti ed esecutori dello stragismo italiano fino al 1980? Davvero il neofascismo di fine anni Settanta era slegato dal fascismo “tradizionale”? Le acquisizioni giudiziarie suscitano inoltre interrogativi riguardo all’insistenza, anche da parte di diversi storici, sul carattere internazionale di quello stragismo rischiando di annacquarne l’evidente carattere italiano. Tale insistenza viene spesso giustificata con richiami alla cosiddetta tesi del “doppio Stato” o, meglio, della “doppia lealtà”, lanciata da Franco De Felice molti anni fa per contrastare le spiegazioni complottistiche, ma che poi nel tempo ha finito involontariamente per avvalorarle, alimentando una generica retorica sui misteri d’Italia incentrata sul ruolo di attori internazionali non chiaramente identificati nel quadro della guerra fredda. Ma è importante riconoscere pienamente la realtà storica del neofascismo italiano, anche per meglio contrastarne le eredità odierne.