lunedì 25 ottobre 2021
Autore di fondamentali curatele - su tutte quelle di Testori e Tondelli -, da decenni firma di punta delle pagine culturali di "Avvenire", è morto questa mattina: mercoledì i funerali nella sua Renate
Fulvio Panzeri

Fulvio Panzeri - Fotogramma

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L’ultimo suo lavoro è arrivato in libreria da qualche giorno. Fulvio Panzeri ne aveva licenziato le bozze poco prima dell’arresto cardiaco che lo ha colpito a fine agosto. Una crisi di particolare gravità, dalla quale non si era ancora ripreso. In cura all’Ospedale di Desio, lì è morto questa mattina. Dal punto di vista biografico, la sua vicenda è sempre rimasta conclusa in quell’angolo di Brianza. A Renate, dove era nato nel 1957 e dove mercoledì alle 14.30 verranno celebrati i funerali, Panzeri aveva lavorato fino a un paio di anni fa come maestro elementare, una circostanza che a volte lasciava sorpresi quelli che lo conoscevano come uno dei più acuti e originali critici letterari della sua generazione. Che Panzeri fosse in cattedra se lo aspettavano, solo che si immaginavano fosse una cattedra universitaria.

Dello studioso Panzeri aveva il piglio e la competenza, come dimostra la sua curatela delle opere dei due autori che più ha sentito vicini, Giovanni Testori e Pier Vittorio Tondelli. Imprese capitali entrambe, entrambe in catalogo da Bompiani a testimonianza di un cantiere ancora in pieno fermento. Tondelli (di cui è imminente il trentennale della morte) è il protagonista anche di quello che ora può essere considerato il suo congedo. Nel recentissimo Viaggiatore solitario, edito ancora da Bompiani, Panzeri aveva raccolto le interviste rilasciate dallo scrittore di Correggio nell’irripetibile periodo che va dal 1980 al 1991, integrandole con una serie di interventi dello stesso Tondelli ancora dispersi in riviste, cataloghi, programmi di sala. Era il completamento dell’ideale trilogia che Panzeri aveva realizzato prima a fianco diTondelli, dando corpo con lui alla lucida fantasmagoria di Un weekend postmoderno (1990), e aveva poi proseguito in solitaria, come atto di fedeltà e di riconoscenza, con i testi compresi in L’abbandono (1993).

Anche per Panzeri, come per Tondelli, quella tra la metà degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta era stata la stagione cruciale, decisiva. Da lettore e studioso di Pasolini, al quale aveva dedicato una monografia più volte ristampata, Panzeri si era affacciato sulla scena della letteratura italiana contemporanea, intraprendendo un percorso di critica militante che dalle pagine del settimanale Il Sabato lo aveva portato alla collaborazione assidua con Avvenire. Se grazie al Sabato era avvenuto l’incontro con Testori, al quale Panzeri ha poi dedicato un’importante “biografia letteraria” uscita da Longanesi nel 2003, è sulle colonne di questo quotidiano che si è meglio dispiegata la sua generosità e la sua intelligenza di lettore. Panzeri faceva parte del gruppo che, raccolto attorno a Roberto Righetto e a Maurizio Cecchetti, aveva portato alla nascita dell’inserto culturale Gutenberg. Il suo campo privilegiato d’indagine era la giovane narrativa, con uno sguardo mai indulgente e sempre curioso alla galassia degli esordienti, che in quel momento cominciavano a rappresentare un fenomeno editoriale ben riconoscibile. Il criterio al quale Panzeri si atteneva, però, non aveva nulla a che fare con le logiche merceologiche e, anzi, non perdeva occasione per contestarle. Quello che gli interessava (quello che sempre gli è interessato, in qualsiasi libro, di qualsiasi autore) era l’urgenza morale all’origine della scrittura. Non il dilemma in sé, a sua volta passibile di essere sfruttato con opportunismo, ma la ferita da medicare, il nodo da sciogliere, il rischio e la bellezza di porsi davanti alla realtà in modo disarmato.

Susanna Tamaro, Carmine Abate, Carola Susani, Mattia Signorini, Marco Missiroli e tanti altri ancora sono stati gli autori di un primo libro riconosciuti e apprezzati da Panzeri, che con uguale franchezza era capace di manifestare perplessità e dissensi. Un’avventura umana e intellettuale di cui resta traccia in libri come l’antologia I nuovi selvaggi del 1995 e Senza rete del 1999, oltre che nelle raccolte dei racconti inizialmente pubblicati su Avvenire. Tra tutte, l’Oscar Mondadori Racconta il tuo Dio, esito di un concorso che Panzeri aveva sostenuto con convinzione e che aveva fatto affiorare le tracce di un’inquietudine spirituale tanto diffusa quanto altrimenti inavvertita. Non meno felice si era dimostrata l’intesa con un editore raffinato come Interlinea, per il quale aveva tra l’altro allestito nel 2017 una scelta di pagine natalizie di Giuseppe Pontiggia, Una lettera dal Paradiso.

Legatissimo alla sua terra (scriveva regolarmente anche sulla Provincia di Como), Panzeri viveva in una casa ingombra di libri, come molti critici. A differenza degli altri, però, aveva trovato il modo di mettere a disposizione della comunità una parte della sua collezione, che era entrata a far parte della dotazione della Biblioteca comunale di Renate. E proprio La biblioteca a scuola è il titolo di un suo saggio del 2015 per la Bibliografica. Anche la scuola, del resto, era un elemento irrinunciabile del suo mondo. Durante i mesi della pandemia si era ritrovato a fare lezione on line, vedendo apparire sullo schermo intere famiglie di immigrati, che si aggregavano al figlio o alla figlia per imparare qualcosa dal maestro. Una circostanza che lo aveva commosso, un’ulteriore irruzione della quotidianità nel suo orizzonte di lettore.

Panzeri però non era solamente un critico, un critico instancabile e profondo. Aveva una storia quasi sotterranea di poeta, venuta alla luce con piena evidenza nel 2000, quando da Guanda era uscito L’occhio della trota. Libro di rara compattezza e di limpida ispirazione, al centro del quale stava un poemetto, I rimorsi, scandito sulla serie dei mesi. Stranamente, in questo calendario privato mancava il foglio di ottobre, che per Fulvio è stato il momento del congedo. Ma ci sono quei versi all’inizio del libro, quel principio che vale come un compimento: «Evita di parlare / è gioco tacere / e coprire le labbra // Come se di tempo / bastasse poco, / ecco pur la memoria // Nel morso chiuso / tra le piccole foglie, / e prime a morire».

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