Si attendeva la resa dei conti, ma è solo la resa ad andare in scena nella Direzione del Pd che accoglie le dimissioni di Pier Luigi Bersani. Non c’è che la linea di Giorgio Napolitano da seguire. E Napolitano sia. Ancora una volta, quasi all’unanimità, il partito si adegua alle direttive del vertice – sia pure dimissionario – che ha incassato il giorno prima la reprimenda del presidente della Repubblica, con l’impegno anche di chi è contrario a votare la fiducia al governo che verrà. Divergenze e mal di pancia non mancano affatto, però. Anzi. E vanno ben oltre i 7 voti contrari e i 14 astenuti su 197 partecipanti. Il "parlamentino" al gran completo è diviso trasversalmente al suo interno e l’aria tesa si respira fin dalle prime battute. Ma non è tempo di divisioni, questo, concordano i democratici. Soprattutto non sono ammessi franchi tiratori quando nascerà il governo e servirà la fiducia. «Non si potrà avere un pezzo di partito nella maggioranza e un pezzo all’opposizione», ripete Franceschini, per il quale ciò non equivale a voler espellere nessuno.In tanti si aspettano la battaglia, ma il dissenso resta mascherato. Ci prova Debora Serracchiani, forte e fresca della sua elezione alla presidenza del Friuli ad alzare i toni, ma viene riportata nell’alveo. Lo scontro è generazionale. Nessuno tra i presenti – dopo aver impostato la campagna elettorale contro il Cavaliere – si vede bene al tavolo con Berlusconi a decidere le sorti dell’Italia in crisi. Ma sono i giovani a spingere di più per fare i conti una volta per tutte con questa realtà. Franco Marini e Anna Finocchiaro e lo stesso Dario Franceschini chiedono buon senso. I risultati elettorali non concedono troppo spazio alle insofferenze. Meglio allora puntare su un esecutivo politico e «metterci la faccia», dicono.Orfini, Fassina, Zampa, Civati sono tesissimi. Se proprio va fatto il governo, meglio che sia il più possibile tecnico, dicono (solo Fassina appare più "morbido", mentre Bindi concorda). Nella sala delle assemblee di Largo del Nazareno, però, gli spazi per trattare sono ben pochi. Il segretario Bersani ci ha rimesso la poltrona. E allora si vota la delega a Letta e ai capigruppo per salire al Quirinale con un mandato a seguire le linee di Napolitano. La sintesi la fa di nuovo il vicesegretario all’uscita dal lunghissimo colloquio con il capo dello Stato. Il governo dovrà nascere «sulla scia delle indicazioni del discorso che il presidente della Repubblica ha espresso di fronte al Parlamento», sulla base dei «due punti che la Direzione del Pd ha considerato essenziali: l’emergenza economica e sociale» e la «riforma della politica con la necessità di dare risposte». I due punti cardine del programma di Bersani, che avrebbe affidato al Pdl la guida delle riforme istituzionali. Il segretario ha incassato il tradimento dei suoi, ma nel confermare le dimissioni, ci torna su: «Ho dovuto annunciare le dimissioni dopo la bocciatura a opera di franchi tiratori delle candidature di Franco Marini e Romano Prodi», ripete. «Molti dei nostri grandi elettori sono venuti meno a decisioni democratiche e formali, fino a portarci sull’orlo di una crisi gravissima e senza precedenti della nostra democrazia». Ma un partito è tale se è retto «da un principio d’ordine» altrimenti diventa «un nido del cuculo». Insomma, la prova del voto di fiducia non è scontata. Così come non è ancora scongiurata la scissione.